Foto: Guilherme Stecanella / Unsplash
Tendiamo a pensare alle strade, alle infrastrutture e ai quartieri cittadini come spazi neutri e ai paesaggi urbani come semplici cornici all’interno delle quali conduciamo la nostra vita quotidiana. Non è così: la conformazione delle città non solo riflette le disuguaglianze sociali, ma ha anche il potere di esacerbarle. Il patriarcato ha per lungo tempo influenzato la pianificazione urbana, che nel corso dei secoli è stata realizzata prevalentemente da ingegneri e architetti di sesso maschile per rispondere ai ruoli e alle esigenze degli uomini, tralasciando di considerare invece le donne, per le quali la conformazione cittadina può essere d’ostacolo all’organizzazione quotidiana e alla realizzazione personale e professionale.
Per questo motivo, negli anni Sessanta del secolo scorso è nato l’approccio dell’urbanistica di genere con lo scopo di valutare e definire le politiche cittadine con una particolare attenzione alla relazione tra genere e spazi pubblici. Gli studi e i progetti che abbracciano questa prospettiva rifiutano l’idea che il design urbano debba rispondere all’ideale del man as norm (“il maschile come norma”), che considera l’uomo bianco, abile, cis-gender, giovane e in carriera non come una delle tante identità che abitano la città, ma come lo standard universale, e quindi neutro, in base al quale si progettano gli spazi, le infrastrutture e i servizi urbani.
Non esiste, infatti, un modo “neutro” di vivere la città. Ognuno lo fa a modo suo a seconda dell’età, del genere, dell’etnia, del ruolo che ricopre nella società, dello status socioeconomico, e di molti altri fattori. Le donne, in particolare, abitano la città in modo diverso dagli uomini: guidano di meno – e, di conseguenza, usufruiscono maggiormente dei mezzi pubblici – vivono di più il quartiere e frequentano maggiormente parchi e giardini. Le donne, inoltre, corrono rischi maggiori per la loro sicurezza quando escono di casa da sole, specialmente durante le ore notturne, e fanno quindi più attenzione a evitare percorsi scarsamente illuminati e poco frequentati.
I pericoli legati al rientro a casa la sera, soprattutto per le donne che vivono lontane dal centro città o dai luoghi del lavoro e dell’intrattenimento, rischiano di impedire loro di cogliere appieno tutte le opportunità che la città può offrire. Questo vale a maggior ragione per le cittadine più svantaggiate dal punto di vista socioeconomico, le quali hanno meno possibilità di disporre di un mezzo di trasporto proprio. Sono diverse le misure che è possibile attuare per aumentare il livello di sicurezza delle donne sul territorio cittadino, come la definizione di percorsi pedonali che non conducano in vicoli ciechi e il miglioramento dell’illuminazione stradale nei quartieri residenziali e poco affollati. Esempi di come tali provvedimenti possano favorire la libertà di movimento delle donne provengono da Stoccolma, dove nel quartiere di Husby è stata incrementata la quantità di lampioni ed esercizi commerciali in zone strategiche per rendere più sicuri gli spostamenti delle abitanti, e dal comune brasiliano di Garanhuns, che con la collaborazione di Action Aid ha sviluppato un’agenda politica incentrata sulla sicurezza delle donne che parte dal miglioramento dell’illuminazione stradale.
Come riflette Francesca Zajczyk, sociologa urbana dell’università degli studi di Milano-Bicocca, “quello della sicurezza è sempre stato l’aspetto principale su cui si è concentrata l’urbanistica di genere, ma non è comunque l’unico. L’attenzione alla relazione tra genere e città si è evoluta nel corso degli anni, così come le esigenze sociali. Oggi la vita delle donne è più complessa, per certi versi, rispetto al passato: la maggior parte di esse lavora fuori casa, ma la necessità di conciliare gli impegni lavorativi con quelli familiari ricade ancora prevalentemente su di loro. La necessità di trovare l’incastro perfetto tra gli orari di lavoro e quelli delle scuole o degli asili, ad esempio, rende la vita delle donne lavoratrici diversa da quella degli uomini lavoratori”. La struttura delle città è spesso caratterizzata dalla separazione fisica tra i luoghi del lavoro e dell’intrattenimento da quelli residenziali, caratteristica che complica gli spostamenti quotidiani delle donne. “Per risolvere questo problema ci si può ispirare al modello della ‘città dei quindici minuti’ in cui gli abitanti possono raggiungere la maggior parte dei luoghi di interesse a piedi o in bicicletta entro un quarto d’ora”, continua Zajczyk. “Si tratta ovviamente di un ideale a cui è più facile avvicinarsi nelle città medio-piccole, rispetto a quelle molto grandi con periferie estese. In questi casi è fondamentale implementare il sistema dei traporti pubblici, che dovrebbe essere efficiente, capillare e sicuro anche durante le ore notturne, oltre che accessibile per le donne anziane, per quelle incinte, con disabilità fisiche o con figli al seguito, magari nel passeggino. Un altro esempio proviene da Barcellona, dove si è puntato, invece, sulla definizione di percorsi pedonali che collegano le diverse aree cittadine in maniera efficiente”.
Foto Egor Myznik /Unsplash
Lo scopo degli studi e dei progetti di urbanistica di genere non è quello di costruire una città “a misura di donna”, ma piuttosto quello di tenere conto dell’ampia diversità che caratterizza la società per mantenere al centro dell’agenda urbana le necessità di tutti e tutte, che si tratti di implementare il trasporto pubblico, investire nell’illuminazione stradale o riprogettare i paesaggi cittadini.
Sforzi di questo tipo sono già in atto in alcune città dell’Italia, dell’Europa e del mondo. Il caso più famoso è quello di Vienna, dove negli anni Novanta le amministrazioni pubbliche si sono basate esplicitamente sulle esigenze della popolazione femminile per la progettazione e la costruzione di un quartiere chiamato Frauen Werk Stadt, caratterizzato da ampi spazi pedonali, luoghi di ritrovo e parchi pubblici che incentivano la consolidazione di una comunità di quartiere e aumentano il senso di sicurezza.
Come spiega Zajczyk, “non esiste un manuale unico che illustri dalla A alla Z una serie di soluzioni applicabili in ogni circostanza. Ciascun contesto urbano è unico e richiede un approccio differenziato. I progetti di urbanistica di genere devono perciò adattarsi alle esigenze specifiche delle città e dei quartieri, dando la priorità al tema della sicurezza, della mobilità o della realizzazione di spazi comunitari, a seconda dei casi. La situazione cambia, inoltre, a seconda che si tratti di pianificare la costruzione di un nuovo quartiere da zero o di riqualificare un’area già esistente.
La realizzazione del quartiere viennese di Frauen Werk Stadt ha rappresentato un’esperienza di urbanistica in senso stretto, nata cioè dalla necessità di costruire nuovi spazi cittadini; ciò è stato fatto assumendo una prospettiva di genere fin dall’inizio, che ha permesso di creare spazi sicuri per i bambini, aree verdi, luoghi di aggregazione e persino di studiare la planimetria degli appartamenti in modo tale che affacciassero sugli spazi comuni, come cortili e giardini, così da aumentare il senso di sicurezza percepito dalle persone dentro e fuori casa.
In alcune aree di Milano è stato adottato invece un approccio basato sull’urbanistica tattica, che prevede una riorganizzazione accurata degli spazi attorno a determinati luoghi sensibili. Vicino alle scuole, ad esempio, sono stati aperti giardini e parchi giochi, protetti dalle strade più trafficate, che sono diventate anche luoghi di aggregazione per famiglie e persone anziane, che possono conoscersi, interagire e sentirsi parte di una comunità”.
Per valutare l’impatto delle politiche urbane da una prospettiva di genere è fondamentale stabilire un confronto diretto con la popolazione civile attraverso, ad esempio, consultazioni di quartiere o sondaggi sulla qualità dei servizi. L’approccio partecipativo è infatti cruciale per comprendere la realtà del territorio ed evitare soluzioni generiche che non tengano conto delle esigenze specifiche.
“Si tratta di iniziative importanti, così come quelle che riguardano la sostenibilità e l’ecologia urbana, che possono cambiare la vita delle persone che abitano in città”, commenta Zajczyk. “Per ottenere un cambiamento reale è necessario però adottare misure concrete a livello burocratico e amministrativo che dipendono sempre da una volontà politica a monte. Il dipartimento di urbanistica di Berlino, ad esempio, ha sviluppato un programma volto esplicitamente a migliorare la fruibilità degli spazi cittadini da parte della popolazione femminile”.
Sarebbe auspicabile, infine, che le idee, le critiche e i progetti in tema di urbanistica di genere non provengano solo da accademiche, attiviste, architette o urbaniste. È fondamentale che le donne siano in prima linea nella promozione di questo tipo di istanze, ma la necessità di ridefinire gli spazi e i servizi in cui si svolge la quotidianità di tutti i cittadini e le cittadine dovrebbe diventare oggetto di riflessione e di impegno da parte della società intera; infatti, ogni fattore che impedisce a una componente della popolazione di partecipare alla vita pubblica, priva l’intera società dei contributi positivi che quelle persone potrebbero apportare.