SCIENZA E RICERCA
Uso della tecnologia e calo di benessere. Una relazione troppo spesso data per scontata
È un dibattito molto acceso quello che si è consumato negli ultimi decenni sul rapporto tra benessere e utilizzo della tecnologia digitale, con particolare attenzione agli utenti più giovani. Gli adolescenti di oggi, infatti, hanno la particolarità di essere nati in un'epoca già digitalizzata, dove la tecnologia ha avuto fin da subito un ruolo centrale e pervasivo nella loro crescita.
Sono stati molti, quindi, gli studi che hanno cercato di capire se e in che modo l'uso di questa tecnologia possa aumentare la probabilità di soffrire di depressione o di alti livelli d'ansia.
La letteratura scientifica a riguardo è molto varia e confusa. Per questo motivo, Amy Orben, PhD in psicologia sperimentale all’Università di Oxford, perplessa dai numerosi articoli allarmistici che comparivano sui giornali per parlare dei grossi effetti negativi dei social media sugli adolescenti, ha deciso di esaminare le principali revisioni sistematiche e meta-analisi già condotte sull'argomento, selezionando le più attendibili con un metodo scientifico accuratamente descritto nella sua pubblicazione, e integrandole con degli studi selezionati che illustrano approcci metodologici e teorici, per scrivere una grande sintesi narrativa delle ricerche condotte su questo tema.
In un precedente lavoro, Amy Orben, insieme al collega Andrew K. Przybylski, aveva dimostrato che dagli stessi dati, a seconda del modo in cui venivano correlati, si potevano produrre risultati molto diversi, a favore o contro l'uso dei social. Questi variavano a seconda del peso che si dava a fattori diversi. Molti degli studi analizzati erano poi insoddisfacenti perché, secondo gli scienziati, tenevano conto della frequenza e della quantità di tempo passata sui social ma non del contesto in questo avveniva. Non tenevano conto, infatti, di importanti fattori come l'età degli utenti e dei contenuti che visualizzavano.
Avevano perciò tentato di leggere quei dati in un modo più olistico, ed esaminandoli con il loro metodo statistico non avevano trovato prove di un'associazione negativa tra l'uso dei social media e il livello di benessere talmente rilevante da giustificare il livello di allarmismo largamente sostenuto dai media.
Lavorando poi alla sua recente sintesi narrativa, la Orben ha riscontrato una correlazione negativa molto leggera tra l'uso della tecnologia digitale, specialmente per quanto riguarda i social, e il benessere degli adolescenti, ma, a causa della grande varietà di risultati contrastanti e degli approcci metodologici spesso insoddisfacenti, non ha potuto chiarire se tale correlazione nasconda una relazione causale di qualche tipo o se sia dovuta a eventuali terzi fattori. Per questo motivo, ha ritenuto utile aggiungere alla sua analisi degli avvertimenti su come migliorare il modo di condurre questo genere di ricerca.
Amy Orben ha notato, nella sua indagine, che molte delle ricerche condotte sull'argomento prendono come parametro principale il tempo di visualizzazione, ovvero la quantità di tempo che un utente trascorre a interagire con le schermate di un dispositivo elettronico. Spesso però in questi studi non viene tenuto in considerazione che questi strumenti permettono di svolgere delle attività molto diverse, come guardare la televisione, giocare, leggere, o usare i social network, che è ciò su cui la Orben ha deciso di concentrare la sua attenzione, data la loro dimensione sociale e coinvolgente.
Purtroppo, nonostante la selezione effettuata, la Orben ritiene che la qualità degli studi sia mediamente bassa, per questo spesso i risultati sono contrastanti. In media, la correlazione tra calo del benessere e social è più confermata che screditata, ma i troppi risultati contrastanti fanno pensare che le prove non siano ancora abbastanza per scegliere un'interpretazione rispetto a un'altra.
Anche quando ci si sofferma sulla letteratura dedicata esclusivamente ai social, i risultati sono confusi e contraddittori. Una certa armonia la si ritrova quando si selezionano solo i dati degli utenti adolescenti. Lì sembra che si possa riscontrare un certo calo di benessere, ma il numero che definisce questo calo è talmente basso che non si può essere certi che sia un dato rilevante. Anche perché ci sono studi che ipotizzano che l'uso dei social istighi all'ansia, alla depressione, alla bassa autostima, e studi che suggeriscono l'esatto opposto. Inoltre, bisogna tenere conto che l'uso dei social può avere, allo stesso tempo, conseguenze sia positive che negative, perché gli effetti sulla sfera emotiva, che influiscono sull'umore, possono essere slegati dai “risultati sociali”, come la connessione e l'interazione con altre persone. È possibile, quindi, riscontrare un miglioramento in uno solo dei due aspetti.
Per comprendere meglio i risultati, è utile trovare altri fattori di distinzione quando si parla di uso dei social media. Per esempio, utenti diversi subiscono effetti diversi in tempi diversi, e, come ha notato la Orben, emergono dei risultati differenti quando si analizzano l'uso attivo e l'uso passivo dei social, dove il primo è legato, per esempio, al chattare, mentre il secondo allo sfogliare foto, pagine e profili. Quest'ultimo sembra associato maggiormente a una diminuzione del benessere e all'insorgere di reazioni negative, come l'invidia. Tuttavia, non è sempre vero che l'uso attivo migliori il capitale sociale, la connessione e, in generale, il benessere, perché questi effetti sono circoscritti sì all'interazione con altri utenti, ma spesso a patto che tali utenti siano persone che conoscono e a cui sono affezionati, come amici e familiari. Un altro fattore che può essere utile tenere in considerazione è il modo in cui gli utenti si mostrano sui social. È stato notato, dagli studi, che chi tende a creare un'immagine falsa di sé stesso ha meno autostima ed è più probabile che soffra di ansia o di insoddisfazione per la propria vita.
Amy Orben ha analizzato anche i risultati di alcuni studi in cui ai partecipanti veniva richiesto di astenersi dall'uso dei social per un certo periodo di tempo. Gli esiti sono stati ancora una volta molto diversi, perché alcuni studi hanno dimostrato un leggero calo di ansia, mentre altri anche della sintomatologia depressiva, mentre in altri ancora non si sono registrati aumenti di benessere dall'”astinenza da facebook”. La studiosa ha anche notato, però, che questo genere di ricerca, oltre a non aver dato risultati sufficientemente rilevanti, rischia di essere falsato da un “potenziale pregiudizio nella selezione dei partecipanti”, dovuto al fatto che un partecipante disposto a sottoporsi all'astinenza da facebook potrebbe essere proprio chi, in partenza, non ha un attaccamento particolare per i social.
Nonostante tutte queste discrepanze, la Orben ha riscontrato però un certo numero di risultati che sembrerebbero confermare un leggero calo di benessere legato all'uso dei social media. Tale correlazione sembra essere avvalorata da alcuni studi bi-direzionali, che hanno cioè riscontrato sia che l'uso dei social diminuisca il benessere, sia che il benessere diminuisca l'uso dei social. Questo, secondo la Orben, è il tipo di indagine che va approfondita, questi risultati rischiano infatti di essere poco chiari perché influenzati da eventuali terzi fattori che possano avere un'influenza su entrambe le variabili considerate (ovvero, il livello di benessere e l'uso dei social).
L'opinione di Amy Orben, quindi è che la ricerca dovrebbe migliorare di qualità ed essere più trasparente, specialmente riguardo alla misurazione della dimensione degli effetti, in modo tale da office informazioni veramente utili ai responsabili politici, ai genitori, e agli studiosi di queste dinamiche.
La mancanza di trasparenza è spesso dovuta al fatto che, dato che ogni ricercatore deve prendere molte decisioni quando analizza i propri dati, come per esempio “quali valori anomali escludere” e “quali variabili di controllo aggiungere”, il rischio però, è che possano effettuare queste scelte lasciandosi inconsciamente influenzare dal risultato che credono (o che sperano) di trovare, dando origine a dei falsi positivi. Per aggirare quindi il rischio che questi pregiudizi cognitivi possano influenzare i risultati, una possibile soluzione, come è stato dimostrato da alcune ricerche condotte in questo modo, è pre-registrare il processo di analisi dei dati prima di accedere ai dati stessi.
Il consiglio della Orben, inoltre, è quello di dedicare maggiore attenzione al modo di comunicare le dimensioni degli effetti, perché “risultati statisticamente significativi” potrebbero non essere “praticamente significativi”. Questo significa che anche se uno studio fornisce prove dell'esistenza di un effetto, non è detto che quell'effetto sia tale da produrre un cambiamento significativo nel mondo reale.
Un altro campo in cui la ricerca può migliorare, inoltre, è nelle pratiche di misurazione degli effetti. Sarebbe bene, infatti, tracciare il benessere in specifici intervalli di tempo, ossia conducendo studi longitudinali su intervalli di tempo diversi, per valutare sia esperienze a lungo termine che a breve termine, e tenere conto delle differenze tra diversi social media e usi della tecnologia. Questo permetterebbe di “esaminare il tempo sullo schermo in modi più sfumati e diversi, distinguendo le varie attività e i tempi di utilizzo”.
Infine, per migliorare l'attività di ricerca è necessario prestare attenzione agli utenti da selezionare. Secondo la Orben, infatti, i risultati potrebbero essere più illuminanti se tenessero conto dell'età, del genere e della provenienza dei partecipanti, perché tali fattori potrebbero avere una rilevanza nello studio sugli effetti della tecnologia.