SCIENZA E RICERCA
Vaccino CoVid-19: serve una cooperazione globale che ancora non c’è
A metà maggio gli Stati Uniti hanno annunciato l’avvio dell’Operazione Warp Speed, “un’imponente impresa scientifica, industriale e logistica come il nostro Paese non ne vedeva dai tempi del Progetto Manhattan della Seconda Guerra Mondiale” ha detto Donald Trump, continuando a esibire un approccio bellico alla questione coronavirus. L’obiettivo è quello di arrivare a produrre e distribuire un efficace vaccino contro Sars-CoV-2 “il più velocemente possibile, prima della fine dell’anno”. Il traguardo viene fissato così presto con l’intento di avere a disposizione un’arma contro la possibile seconda ondata di infezioni attesa tra l’autunno e l’inverno. Le “piene risorse del governo statunitense” saranno dedicate al progetto, in altri termini risorse illimitate. Saranno coinvolte le principali istituzioni medico sanitarie nazionali, come l’Nih (National Institute of Health), la Cdc (Centers for Disease and Control Prevention) e la Fda (Food and Drug Administration), ma anche il dipartimento della difesa e le forze militari, rendendo ancora più muscolare l’impresa. Il governo statunitense vorrebbe avere 100 milioni di dosi vaccinali entro novembre 2020 e altre 200 milioni per gennaio 2021.
Sebbene Trump sostenga che “le relazioni con altri Paesi, che ci vedono come leader per risolvere questo problema, sono incredibili”, ogni possibilità di collaborazione con la Cina viene esclusa, come riporta Science. Insomma, l’Operazione Warp Speed sembra progettata con un fine molto specifico: ottenere al più presto un vaccino per la sola popolazione statunitense, che conta poco più di 328 milioni di abitanti.
Il presidente statunitense Donald Trump presenta l'Operazione Warp Speed. Msnbc
Alla retorica bellicosa corrisponde una politica di guerra fredda tra Washington e Pechino, che dai dazi commerciali ora si espande alla politica sanitaria. E non sono solo i tempi del progetto Warp Speed che lasciano perplessa gran parte della comunità scientifica internazionale, secondo cui non si potrà avere un vaccino prima di 12 o 18 mesi. Secondo Seth Berkley, direttore di Gavi – l’alleanza per i vaccini, un’organizzazione no-profit mista pubblico-privato con sede a Ginevra, la decisione di non coinvolgere la Cina in Warp Speed è un errore dettato da una vista corta.
Secondo il documento dell’Organizzazione mondiale della sanità aggiornato al 22 maggio, sono 10 i vaccini che, dopo aver fornito promettenti risultati a partire dalle analisi in vitro, sono passati alla fase di sperimentazione clinica sull’uomo. 5 di questi sono sviluppati da centri di ricerca e aziende della Cina, il Paese in cui le ricerche sul vaccino sono in fase più avanzata. Del resto è stata proprio la Cina, il 10 gennaio, a condividere online su database internazionali le prime sequenze genetiche del virus Sars-CoV-2, isolate dai ricercatori cinesi.
Dalle pagine di Nature Mariana Mazzucato, economista a capo dell’Institute for innovation and public purpose dell’Universtity College di Londra, già ad aprile ammoniva che “in una pandemia, l’ultima cosa che vogliamo è che ai vaccini abbiano accesso solo i Paesi che li producono e che non siano universalmente accessibili”.
Lo stesso appello è stato lanciato da numerosi scienziati e organizzazioni. Il 24 aprile dalle sale dell’Oms è stata lanciata un’alleanza globale per facilitare l’accesso ai dispositivi di protezione e trattamento contro il CoVid-19, includendo l’accesso egualitario al futuro vaccino. La Commissione Europea il 4 maggio ha organizzato una raccolta fondi, il Coronavirus Global Response, a cui hanno risposto molti leader mondiali e filantropi, raccogliendo ad oggi quasi 9 miliardi e mezzo di euro. Dopo la decisione di Trump di tagliare i fondi all’Oms, la Bill and Melinda Gates Foundation si è impegnata a contribuire finanziariamente alla distribuzione del vaccino in tutto il mondo. Lo stesso ha sostenuto il presidente cinese Xi JinPing parlando di un eventuale vaccino sviluppato in Cina, ponendosi agli antipodi rispetto al protezionismo sanitario di Trump.
Together with our global partners we pledged €9.5 billion in initial funding to develop diagnostics, treatments and vaccines to fight #coronavirus in every corner of the world.#UnitedAgainstCoronavirus #GlobalResponse pic.twitter.com/KUGqj9SxWU
— European Commission 🇪🇺 #UnitedAgainstCoronavirus (@EU_Commission) May 26, 2020
La scorsa settimana i leader di Ghana, Pakistan, Senegal e Sud Africa hanno firmato una lettera aperta che invita ad applicare alla politica sanitaria globale i principi di apertura e innovazione-come-bene-comune che guidano l’etica scientifica. I quattro Paesi spronano a condividere liberamente la ricerca e la proprietà intellettuale in tema di coronavirus e richiedono una distribuzione equa dei vaccini.
Come riporta però un editoriale di Nature del 20 maggio, sebbene nella gran parte dei centri di ricerca la competizione ha lasciato spazio a una collaborazione e condivisione dei dati che meriterebbe di sopravvivere alla pandemia, i singoli Paesi ad oggi non hanno preso un impegno serio nella direzione di un equo accesso ai frutti della ricerca. Specialmente quando si parla di distribuzione dei vaccini gli interessi nazionali sembrano ancora prevalere sullo spirito comunitario.
Naturalmente esistono difficoltà reali difficilmente aggirabili quando si deve arrivare a produrre più di 7 miliardi (tanta è la popolazione mondiale) di dosi vaccinali. Esistono 4 tipologie fondamentali di vaccini contro Sars-CoV-2 in via di sperimentazione e tutte e 4 potrebbero raggiungere l’ultima fase di commercializzazione. A diverse tipologie però corrispondono diverse capacità industriali di produzione su larghissima scala. Secondo Soumya Swaminathan, capo scienziato dell’Oms, è plausibile ottenere decine di milioni di dosi vaccinali nel 2021, ma la loro inoculazione all’intera popolazione mondiale potrebbe richiedere 4 o 5 anni. L’eradicazione del vaiolo del resto è stata sì un successo dell’Oms, ma è arrivata a fine anni ‘70, circa 20 anni dopo l’inaugurazione di quella campagna vaccinale.
Ma non sono solo le difficoltà di natura logistica e organizzativa a ostacolare un ampio accesso ai vaccini. La legislazione internazionale infatti non sembra essere in grado di vincolare i singoli Stati alla condivisione di terapie e vaccini oltre i confini nazionali.
Nel 2009 durante la pandemia di influenza suina H1N1, l’Australia fu tra i primi a sviluppare un vaccino, ma non lo condivise immediatamente con gli altri Paesi, volendo somminstrarlo prima agli australiani. Di conseguenza gli altri Paesi, inclusa l’Italia, fecero scorta di iniezioni vaccinali appena divennero disponibili, salvo poi non doverle utilizzare perché l’influenza suina venne contenuta. Le scorte vennero allora vendute a basso prezzo dai Paesi ricchi che se le erano potute permettere ai Paesi più poveri, che o le hanno utilizzate per combattere l’influenza stagionale o le tengono ancora in frigo.
Dopo l’epidemia di influenza aviaria H5N1 iniziata in sud-est asiatico a fine 2003 e arrivata in Europa a fine 2005, gli Stati membri dell’Oms hanno adottato una risoluzione nota come Pip (Pandemic Influenza Preparedness) che prevede non solo l’obbligo da parte dei singoli Paesi di condividere informazioni e dati relativi all’influenza, ma anche strumenti diagnostici, terapeutici e vaccinali. Essendo valido per l’influenza però non si estende formalmente a una malattia causata da coronavirus.
"One country cannot control the disease on its own." Melanie Saville of @CEPIvaccines joined us to discuss the race for a Covid-19 vaccine and why a global approach is necessary. pic.twitter.com/Mc9isGBoNi
— Bloomberg New Economy Forum (@neweconforum) May 19, 2020
Secondo la Cepi, la Coalition for Epidemic Preparedness Innovations fondata nel 2017 con sede a Oslo, non solo non esiste un vero accordo internazionale per una giusta distribuzione delle risorse utili a garantire quello che dovrebbe essere un diritto fondamentale globale, ovvero la salute, ma non esiste nemmeno un’entità o istituzione intitolata a coordinare la produzione dei vaccini su scala globale. La missione dell’Oms, sancita dalla sua costituzione, è di garantire il più alto livello possibile di salute alla popolazione globale, ma i suoi poteri sono limitati, così come il suo budget biennale (tra i 4 e i 6 miliardi di dollari, minore di alcuni ospedali statunitensi), e non può imporre sanzioni agli Stati membri, come invece può fare la World Trade Organization, l’istituzione internazionale per il commercio che formalmente non è un’agenzia dell’Onu.
Addirittura, come è riportato da Roxanne Khamsi su Nature, “la maggior parte dei Paesi hanno leggi che consentono ai governi di forzare la produzione e di vendere all’interno delle mura domestiche”.
Secondo il manager della comunicazione della Cepi, Mario Crhistodoulou, “Questa è una sfida che deve essere affrontata con urgenza dai governi, dai leader della salute mondiale e dai legislatori, finché lo sviluppo dei vaccini contro CoVid-19 sta ancora proseguendo”. Secondo Ohid Yaqub, ricercatore in tema di politiche sanitarie dell’università del Sussex in Regno Unito, i governi dovrebbero sedersi a fianco delle aziende farmaceutiche e programmare la produzione per garantire l’equo accesso ai vaccini.
Proprio perché la conquista di un vaccino è un percorso rischioso e pieno di incertezza, sarebbe importante una cooperazione globale che consenta di tamponare gli eventuali fallimenti delle singole iniziative nazionali. I singoli Paesi potrebbero accordarsi per attenersi a una risoluzione simile a quella già sviluppata dall’Oms per l’influenza (Pip). Pochi giorni fa si è svolta la 73ma Assemblea Mondiale della Sanità e, seppur lo svolgimento è stato in modalità virtuale, le ripercussioni della decisione statunitense di allontanarsi dall’Oms si sono fatte sentire. In questo clima è difficile si generino le condizioni per un accordo internazionale di condivisione della ricerca e dei vaccini di cui ci sarebbe tanto bisogno.