Rossana Rossanda. Foto: Bettina Flitner/laif/Contrasto
Una o due volte mi è venuto di dirglielo che era da tanti anni il mio leader di riferimento. Figurarsi! In epoca di leaderismo e di politica degradata a combattimento di galli: bisognava andarci cauti. E nello stesso tempo ci tenevo a farglielo sapere. Un sorriso e si passava oltre.
Scrivere di Rossana Rossanda su un giornale universitario come il Bo Live: in omaggio alla storica dell’arte che ipotizzava in base ai suoi interessi e ai suoi studi di poter diventare, e un po’ per tutta la vita ha rimpianto? Flebile motivo di innesco, e non ce n’è neanche bisogno. Oppure, a Padova, facendo appello alla geografia materiale e sentimentale, visto che è nata a Pola e rinata a Venezia, la sua seconda città? Su Venezia e in particolare sul Lido nella sua adolescenza di guerra scrive pagine bellissime nella sua autobiografia La ragazza del secolo scorso: da non dirsi e neanche da pensare – lo so – che se non avesse lasciato di abitare a Venezia e di studiare a Padova al Liviano per trasferirsi a Milano, avremmo avuto altre pagine all’altezza. La vita l’ha portata altrove. Ma appunto, che cosa primariamente qualifica Rossanda? La sento e vedo nominare come “la giornalista” nei molti pezzi che girano intanto in rete, rispettosi e estimativi, va detto, anche nei giornali più lontani. L’onore delle armi: la morte fa miracoli. Formalmente sì, giornalista. Ma molto di più, scrittrice, saggista, dirigente politico (parlamentare anche, ma è l’ultima cosa). Direttrice, semmai, che orienta, tiene insieme, indirizza la tumultuosa e plurale redazione del “Manifesto”. Prima donna giunta a dirigere un quotidiano, mi pare.
Si indovinava una solitudine, uno stare più in alto, un tocco di aristocrazia portato con naturalezza. Elitista? E come negarlo. E anche in questo, controcorrente rispetto al populismo entrato a torto ragione nel lessico come segnale dei tempi. Non per niente Togliatti la manda a occuparsi di intellettuali: niente quote rosa, che le sarebbero riuscite ostiche, ma una bella scelta, avveniristica e adeguata, una donna fra tanti artisti, professori e studenti, questi più o meno in rivolta. E però, senza nulla togliere al suo essere intellettuale politico complessivo.
Noi ci siamo incontrati sempre a Venezia, nei suoi non rari ritorni: all’Istituto storico della Resistenza, nel dipartimento di Studi storici, per presentazioni di libri suoi o affini. Come quello scritto con Ingrao: i due riferimenti politici nazionali fra cui aveva oscillato a lungo Cesco Chinello, ex-federale e parlamentare della sinistra comunista a Venezia, che ancora si autoflagellava, tanti anni dopo, di non aver saputo ‘uscire’ anche lui nel ’69, l’anno della svolta; mentre Rossanda lo incoraggiava nella sua nuova responsabilità di storico di Marghera, da sviscerare nel suo esserci e nel suo non poter più esserci, così come era stata. L’arrivo di questa instancabile viaggiatrice fra le idee e gli uomini, era segnale di mobilitazione per tutti i ‘manifestini’ in atto, o in pectore, o in disarmo e d’antan; un trepido, collettivo ‘alzati e cammina’. Rossanda era come il suo giornale: mutano i tempi, ma lei c’è ancora, c’è sempre. Tanti ex-giovani si stringevano, fra ammirati e compunti, attorno a questa dignitosa e fiera signora dai capelli bianchi. Smobilitazione o no, lei continuava a riempire le sale, le stesse sale e aule del ’68, magari, di un ’68 che non c’era più, ma risorgeva per l’occasione. E però, se molti di questi pensionati esercitavano la memoria e il sospiro, lei continuava a pensare in grande e a far politica, guardando più avanti che indietro.
È possibile che il cordoglio diffuso che si può cogliere alla sua scomparsa abbia qualcosa a che fare con questo, molto al di là dei sentieri e meandri della nostalgia. Vedo molto citato - e lo faccio anch’io, è la radice e la riprova del mio riconoscerla come guida - il suo giudizio e la sua espressione dell’“album di famiglia” delle Brigate Rosse. Quanta ipocrisia. Le si fa additare solo un lato della medaglia, il sanguinoso dogmatismo staliniano, come se nelle intenzioni e tradizioni di un comune “album di famiglia” non ci fossero anche il Che fare e la prospettiva della rivoluzione. La professione - rotta per definizione a tutti i mutamenti di linea e di proprietà - non può una tantum non inchinarsi alla virtù, anche professionale, così pertinace e coerente. E poi gli ex. L’ Italia è piena di ex, sono dalla fondazione la sua cifra. Direzioni di marcia, certo, e senso, molto diversi nelle diverse ondate storiche di autonegazione e nuovo inizio. Gli ex dell’ultima ondata, almeno i più, si affollano tristi e ammosciati, non si vogliono bene e hanno poche ragioni di autostima. Ed ecco una comunista non pentita, inattaccabile, che al momento buono ha saputo più di loro dire di no, criticare la Casa Madre, e farsi sbattere fuori. E però – miracolo! – uscendo verso sinistra e non verso destra. I grandi vecchi del Manifesto sono stati questo: pare incredibile, ma si può aver voluto cambiare il mondo e non vergognarsene. È andata così? È andata male? Non è perché è andata male che sia un atto dovuto sporcare se stessi passando armi e bagagli all’avversario. Si può cambiare idea, qualche volta anche si deve (senza esagerare, prego), ma anche il ‘provando e riprovando’ vien da lontano e non è una brutta divisa.
Rossanda non era né rassegnata né pentita, era lucida nell’analisi, che sapeva potere e dover essere persino rovinosa, per rispetto della verità delle cose. Ma bisognava vederla in mezzo ai giovani studenti e studentesse veneziane, che la adoravano – se si può usare un termine tanto sopra le righe – e constatare quanto la vecchia signora della sinistra non arresa sapesse e avesse voglia di mantenere contatti con i giovani delle successive generazioni. La storia non finisce nell’’89, né a Berlino né alla Bolognina.