Laguna di Venezia - foto di Massimo Pistore
“Le isoline sparse intorno, ricoperte di canne e d’alghe, sono i canneti e le barene. Le alluvioni ricoperte di fanghiglia si chiamano velme. I passaggi fra di loro sono i ghebi. Questi termini, insieme ad altri, rischiano purtroppo di finire nell’oblìo, perciò è forse utile annotarli.”
Predrag Matvejević, L’altra Venezia
La laguna, difesa antica e al tempo stesso fonte di molti dei guai odierni di Venezia, è un posto unico al mondo. Unica, davvero. La storia di Venezia è la storia dell’acqua alta che dalla laguna entra in città, la sommerge, portando grande scompiglio, danni, umidità. Ma al tempo stesso, la storia di Venezia è la storia di una città che grazie alla laguna è scampata alle invasioni per più di un millennio, ed è rimasta stata protetta e non direttamente coinvolta nei molti conflitti che combatteva altrove ma non sulle sue isole. E sempre grazie alla laguna, alle sue caratteristiche ambientali e biologiche, ha potuto nutrirsi, svilupparsi, crescere e diventare il luogo che tutti oggi conosciamo.
“Il fenomeno delle acque alte fa parte dell’essenza stessa di questa città anfibia, che ha un legame inscindibile, quasi di simbiosi, con la laguna su cui sorge. Fin dalla sua fondazione, Venezia ha imparato a convivere con l’acqua, sapendo di dipendere da essa nella buona e nella cattiva sorte.” Nel suo ricchissimo reportage sull’Italia fragile e affetta dalla crisi climatica, Terra bruciata (Rizzoli, 2019) Stefano Liberti fa sosta anche in laguna. Anzi, è proprio lì che si trova la notte dell’aqua granda, il 12 novembre 2019, quando la marea arriva a 187 cm, il dato più alto registrato dopo la marea eccezionale di 197 cm del 1966, segnando un momento di non ritorno. Danni immensi, ma soprattutto una presa di consapevolezza, forse, del fatto che il rapporto tra laguna e città è ora di fronte a un nuovo passo e deve fare i conti con un rischio sempre più complicato da calcolare. Perché l’aqua granda è stata il risultato di una specie di combinazione perfetta e fatale. Da un lato c’è il fatto che la città sta sprofondando, e cioè soffre di subsidenza, in parte effetto naturale e in parte risultato delle attività industriali. Dall’altro si è verificato un evento meteo particolarmente intenso: il picco di marea astronomica è stato acuito dallo scontro di due correnti provenienti da due direzioni diverse, il vento di scirocco da sud-est e la bora da nord-est. Un piccolo ciclone che ha spinto con forza la laguna dentro la città. Un evento raro, tanto raro che il Centro maree, che usa modelli previsionali piuttosto accurati, non era riuscito a prevederlo.
La storia dell’acqua alta veneziana è una storia sì ciclica e antica ma che in questi ultimi due decenni sta appunto prendendo una nuova forma. Fino alla metà del secolo scorso, le acque alte erano molto più rare, tra le 2 e le 8 per decennio, come dimostrano anche diversi documenti storici. Dagli anni ‘60 del '900 il fenomeno si è molto intensificato e così come aumentano le maree registrate sopra i 140 cm. Nel grafico qui sotto vediamo l’andamento delle maree dal 1872, anno delle prime registrazioni strumentali, alla fine del 2020, con i dati del Centro Maree della città di Venezia.
In parte, questo è il risultato della crisi climatica, del cambiamento della circolazione delle correnti mediterranee con l’arrivo più frequente ed esteso degli anticicloni africani da sud a nord. Quando arriva lo Scirocco, com’è appunto successo nel novembre 2019, il vento spinge l’acqua dal basso Adriatico verso la laguna. La crisi climatica ha però come ben sappiamo anche comportato un innalzamento del livello del mare in diverse parti del mondo, e in particolare a Venezia il livello assoluto è cresciuto di quasi 15 centimetri nel corso dell’ultimo secolo. La subsidenza, d’altro canto, ha fatto sprofondare la città di oltre 20 centimetri. Visto dalla terra, il mare a Venezia si è innalzato complessivamente di un livello medio di circa 30 centimetri.
“ Là dove la costa e il retroterra sono piatti come nella Laguna, al tramonto mare e terraferma si allineano, livellandosi e uniformandosi quasi completamente. Al sorgere e al declino, il sole giace a un tempo nel mare e sulla terra. Predrag Matvejević, L’altra Venezia
E dunque, gli studi sulla laguna diventano centrali, focali per capire non solo e non tanto come difendere Venezia dall’acqua alta ma soprattutto come riuscire a portare la città a un nuovo diverso equilibrio, tra la sua dimensione urbana e quella lagunare. Una città anfibia, come la definisce Liberti, che deve trovare una nuova cifra di adattamento a una situazione che è solo in parte quella ricorrente e antica che ha acquisito ormai nuove caratteristiche.
Una città che convive ed è compenetrata dalla sua laguna, ambiente fragile in continua trasformazione e che, un po’ per sua natura e un po’ per l’impatto delle attività antropiche, non rimane certo fermo, cristallizzato nel tempo ma è mutevole, mobile, liquido. “Parlando di Venezia, contrariamente a quello che generalmente si ritiene, il problema centrale da risolvere non è tanto la difesa della città dalle acque alte,” scrive Luigi D’Alpaos, emerito di idraulica all’Università di Padova e uno dei massimi esperti del sistema lagunare, nel suo libro Fatti e misfatti di idraulica lagunare (Istituto Veneto di scienze, lettere e arti, 2010) “quanto piuttosto quello, molto più articolato e generale, di contemperare quell’esigenza indiscutibile con la salvaguardia della laguna.”
Le prime opere
Nella sua lunga storia, la laguna è sempre stata un ambiente dinamico. Da un lato c’è l’azione dei fiumi, che sfociando numerosi nell’alto Adriatico, hanno portato nei millenni sedimenti che nel tempo sono diventati isole e strisce di terra argillosa consolidata. Dall’altro il mare che spinge l’acqua verso l’entroterra. L’azione delle correnti marine, che a seconda delle maree, sommergevano e facevano riemergere le terre sedimentate, ha disegnato la fitta rete di canali che caratterizzano la laguna. E sempre secondo quanto leggiamo nel testo di D’Alpaos, diversi studi sembrano confermare che anticamente “in epoca protostorica la zona lagunare potesse essere completamente emersa e che solo recentemente, in termini geologici, il mare l’abbia invasa, penetrandovi attraverso il cordone di dune litoranee (i lidi) che la marginava, superandolo in corrispondenza delle sue parti più depresse e sommergendo quasi completamente i cordoni più interni, dei quali gli attuali isolotti lagunari rappresenterebbero ciò che rimane delle parti più elevate”.
Al di là delle vicende geologiche che l’hanno determinata, non c’è però dubbio che la storia più recente della laguna è intrecciata indissolubilmente con quella delle popolazioni che l’hanno abitata dal 400 dC in poi, e che dal primo momento hanno cercato di dominarla, controllarla, adattarla, modificarla, renderla vivibile, difenderla, sfruttarla.
Tra mito e storia sappiamo che nel corso del 400 dC e del 500 dC le isole della laguna si sono popolate, almeno in parte sotto la spinta della fuga dalle invasioni di popoli barbari che arrivavano da nord e da est. La laguna dell’epoca romana era probabilmente diversa da come la vediamo oggi. Sempre D’Alpaos riferisce di diverse ricostruzioni che indicherebbero che nella zona della laguna superiore gli specchi d’acqua si siano ristretti mentre il lido che separa la laguna dal mare si sarebbe ingrossato. Al contrario, nella zona della laguna inferiore, l’acqua avrebbe sommerso parte della terraferma, ampliando così lo specchio lagunare, mentre i lidi sono rimasti sostanzialmente gli stessi ma si sono assottigliati. E in generale, i lidi erano attraversati da molte bocche che però tendevano a essere abbastanza poco profonde.
Nei primi secoli, le popolazioni abitanti la laguna hanno cominciato a lavorare per contrastare gli effetti delle maree e quindi della sommersione, da un lato, e dell’interramento dovuto all’azione dei fiumi dall’altro. I primi interventi furono però piuttosto modesti, di bonifica di piccole zone, di raddrizzamento di alcuni canali, di recupero di piccole saline per l’estrazione del sale, uno dei prodotti importanti nei commerci dell’epoca.
Ma passato l’anno Mille, i problemi indotti dall’azione dei fiumi cominciarono a essere considerati molto consistenti e problematici da quella che nel frattempo era diventata una città importante e potente, con una popolazione assai più consistente, in piena espansione, e con traffici commerciali verso tutti i porti del Mediterraneo. I problemi principali erano dati da un ramo del fiume Piave che sfociava nel bacino lagunare e ancor di più dal Brenta che con il suo ramo principale sfociava a Fusina, nella laguna media. L’azione di entrambi i fiumi portava grandi quantità di sedimenti che finivano con il ‘rubare spazio’ all’acqua, finendo con l’occludere sia alcuni dei canali della rete di navigazione cittadina che le bocche di porto che connettevano la laguna con il mare. L’azione di interramento causata dai fiumi non era sufficientemente contrastata dalle maree e dall’azione del mare.
Fiumi dirottati
A partire dal 1300 dunque Venezia inizia a lavorare per difendere se stessa e la propria laguna, e lo fa in prima battuta costruendo dei canali che portino le acque del Brenta più lontano, verso il bacino di Malamocco. La diversione del fiume, anche definita la tajada (la tagliata), viene poi effettuata a più riprese, con impatti e conseguenze anche molto importanti su tutto il territorio, nel corso dei tre secoli successivi, fino alla definizione del Taglio nuovissimo. Tale è l’importanza della gestione delle acque che nasce nei primi anni del ‘400 il consiglio dei Savi alle acque, affiancati poi dagli Esecutori e da un Collegio solenne, che nel loro insieme costituivano l’ufficio del Magistrato alle Acque. Da fine ‘400 inizia una massiccia operazione di grandi diversioni di tutti i fiumi che sfociano in laguna. Oltre al Brenta viene deviato anche il Bacchiglione che dopo una serie di lavori, anche in questo caso a più riprese, vengono portati a sfociare a sud di Chioggia, nella laguna di Brondolo e da qui direttamente al mare. Viene poi disegnato a metà del XVI secolo un piano ad opera di Cristoforo Sabbadino per allontanare verso nord la foce del Piave e di tutti i fiumi che arrivavano al bacino lagunare. Il Piave viene così deviato verso est. Anche in questo caso l’opera non viene completata in un unico giro. Ci vogliono diversi interventi, anche a seguito dell’insorgenza di diverse problematiche e della rotta degli argini, per vedere il fiume arrivare al suo sbocco finale al mare nei pressi di Cortellazzo. Nell’alveo abbandonato del Piave viene fatto confluire il Sile, che poi viene fatto sfociare, indirizzato da un solo argine destro, al limite superiore della laguna a Portegrandi.
Si tratta dunque di più di due secoli di grandi opere che, come ricorda ancora D’Alpaos nel suo libro, non ebbero come conseguenza solo la salvaguardia della laguna: “Molte furono però le conseguenze negative sui territori attraversati dal Brenta, dal Piave e dal Sile, tant’è che non è fuor di luogo affermare che non pochi dei gravi, attuali, problemi di sicurezza idraulica di cui soffrono i tre fiumi trovino la loro causa prima proprio negli interventi attuati dalla Serenissima.”
Da inizio 1600 Venezia dà anche il via alla conterminazione, la delimitazione del territorio lagunare con una serie di cippi in pietra d’istria che delimita dunque i confini entro i quali valgono i regolamenti di protezione della laguna stabiliti dalla Repubblica. La posa dei cippi viene ultimata proprio a ridosso della caduta di Venezia, nel 1792.
“ Nelle isole della Laguna, sulle loro sponde rivolte a oriente o a occidente a breve distanza, il sole affonda al tempo stesso in mare e si posa sulla terra: da quella parte emerge dalla superficie dell’acqua, dall’altra appare sulla riva. Predrag Matvejević, L’altra Venezia
Le bocche di porto
Se è molto difficile, secondo diversi studi, incolpare queste prime grandi opere dei problemi attuali della laguna, non c’è dubbio che con la diversione dei fiumi ha inizio una tendenza, lenta ma continua, all’erosione. Il processo di sommersione, che deriva come già detto dalla combinazione di eustatismo (innalzamento del livello del mare) e subsidenza del suolo, è però senz’altro aggravato dall’azione ben più pesante delle attività antropiche realizzate nell’ultimo secolo e mezzo.
Un altro momento importante di interventi in laguna è quello della sistemazione delle tre bocche di porto, tra inizio ‘800 e i primi anni del ‘900, quando nel frattempo Venezia e il Veneto sono stati unificati al resto d’Italia. L’obiettivo è quello di garantire una maggiore navigabilità in laguna, anche alla luce dei cambiamenti nel frattempo intervenuti nel mondo della navigazione.
La prima bocca a essere sistemata, con costruzione di dighe e moli a difesa dei fondali per favorire la navigazione, tra l’epoca napoleonica e quella di dominazione austriaca, è quella di Malamocco. Segue quella a nord, la bocca del Lido. E infine, con lavori interrotti dalla I guerra mondiale e completati solo negli anni ‘30 del ‘900, la terza, la bocca di Chioggia. D’Alpaos fa notare che con la realizzazione dei moli alle bocche di porto, viene meno “la centralità del problema della salvaguardia della laguna enunciata da Sabbadino e fatta propria nei secoli successivi dai tecnici deputati dalla Repubblica a sovrintendere al governo delle acque. La realizzazione dei moli alle bocche fornisce una soluzione efficace solo a un problema specifico, locale, senza indagare né tanto meno comprendere quali riflessi (negativi come si vedrà) il provvedimento avrebbe più in generale potuto comportare per la laguna.”
In termini idraulici, aggiunge l’esperto, le nuove opere hanno modificato il moto e aumentato i volumi di acque scambiate tra mare e laguna attorno alle bocche “con effetti non proprio positivi sulla morfologia lagunare”.
Tempi moderni
Intanto però, ai margini della laguna, sta nascendo il nuovo insediamento industriale di Porto Marghera. E questo porterà nuovi e ben più pesanti impatti sulla laguna. Già da fine ‘600 erano stati effettuati diversi lavori di allargamento e ampliamento dei tracciati dei canali navigabili per consentire alle flotte navali di arrivare a Venezia. Ma gli effetti di queste opere sono trascurabili rispetto alla realizzazione dei due grandi canali navigabili realizzati per assecondare la costruzione del polo industriale di Marghera, il canale Vittorio Emanuele scavato nel corso degli anni ‘20 del ‘900 per permetteva la navigazione e l’attracco di grandi navi mercantili. Ampliato e approfondito ulteriormente dopo la II guerra mondiale, nel pieno dello sviluppo del polo industriale, il canale modificò sostanzialmente la direzione delle correnti e la velocità di propagazione della marea che entrava in laguna dalla bocca di Lido. A fine anni ‘60 è stato poi costruito il canale Malamocco-Marghera, concludendo un nuovo ciclo di grandi opere improntate a facilitare la navigabilità, anche per scopi industriali, della laguna.
Opere che hanno avuto, e hanno tuttora, un immenso impatto sulla morfologia della laguna. Che richiedono manutenzione continua, con interventi di dragaggio che ulteriormente modificano e danneggiano l’ambiente lagunare e che ne erodono i fondali. Per non parlare dell’impatto diretto della circolazione delle grandi navi sui fondali e sull’ecosistema lagunare.
Lo sviluppo industriale di Porto Marghera ha avuto anche un’altra immediata conseguenza molto concreta sull’ambiente lagunare. Per le necessità di raffreddamento degli impianti, si sono prelevate in modo massiccio acque sotterranee dalle falde, una pratica definita emungimento. A partire dagli anni ‘30 fino a metà anni ‘70, il prelievo è stato continuo, anche se con intensità ben diverse. Nel 1970, leggiamo su uno studio realizzato da Laura Carbognin, Paolo Gatto e Giuseppe Mozzi, del CNR di Venezia, dei 402 pozzi artesiani ancora in attività nel Comune di Venezia, “i 56 in esercizio a Marghera erano responsabili della quasi totalità degli emungimenti (500 l/sec), mentre gli 11 attivi a Venezia producevano appena 10 l/sec.” Il prelievo non è stato naturalmente uguale nei decenni, osservano i ricercatori. “Si è visto che nei primi anni di questo secolo (il ‘900, ndr) il suolo si abbassava per sole cause naturali con valori assai modesti (circa 0,4 mm/anno).
Dal 1930 circa, quando per le esigenze idriche della nascente zona industriale s’iniziarono gli emungimenti di falda, questo esiguo tasso si accentuò passando a 1,8 mm/anno; ma solo dopo il 1950, con l’inizio degli sfruttamenti intensivi l’abbassamento del suolo raggiungeva i valori medi di 8 mm/anno. La fase più critica fu raggiunta tra il 1968 e il 1969 con 17 mm a Marghera e 14 a Venezia.” Nel 1970, l’emungimento viene interrotto e le falde vengono ripressurizzate, un’operazione che rallenta e l’abbassamento del suolo. Intanto però la città, come abbiamo visto, si è afflosciata su se stessa di una misura piuttosto consistente.
Sappiamo che oggi la laguna è nuovamente al centro di molte attenzioni sul piano scientifico, economico e tecnologico. Antonello Pasini, climatologo, ha più volte sottolineato in diverse interviste e documentari che la laguna è “un laboratorio naturale per studiare i cambiamenti climatici che ci dà il segnale di allarme per quello che avverrà sulle coste di tutto il mondo”. Un laboratorio naturale che è stato modificato dall’azione umana in modo molto intensivo nel corso dei secoli e soprattutto nel corso degli ultimi decenni.
Oggi la discussione pubblica si concentra soprattutto su due questioni: la navigabilità dei canali veneziani e quindi l’opportunità di avere o meno le grandi navi da crociera e le masse di turisti in giro per la città e la capacità, o meno, del sistema MOSE di difenderla dall’acqua alta. Sul MOSE torneremo, in questa serie.
Ma ci sentiamo di chiudere citando ancora le considerazioni di Luigi D’Alpaos nel suo libro sui Fatti e misfatti di idraulica lagunare: “Nonostante la complessità degli interventi da attuare per invertire i processi di degrado che stanno seriamente compromettendo molte parti del bacino lagunare, snaturandole nella loro struttura morfologica secolare, in questa direzione è necessario muoversi con maggiore determinazione, se non si vuole correre il rischio di salvare solamente il tessuto urbano dei centri storici, in un ambiente completamente diverso da quello che ha visto nascere, svilupparsi e tramontare la gloria della Repubblica. Se malauguratamente questo accadesse, - conclude D’Alpaos - la Venezia che avremo salvato sarà davvero la Venezia che avremmo voluto salvare?”