Otto anni. Tanto (poco) è il tempo in cui Napoleone e il suo viceré dominarono su Venezia. Otto anni in cui la città insulare mutò in buona parte il suo volto, per imposizione regia ma anche per un impeto tutto interno, già maturato all’alba della caduta della Serenissima, alla rincorsa di una modernizzazione urbana che le altre città, quelle grandi e importanti, tutte in terraferma, ormai avevano raggiunto.
I boulevard e gli archi di trionfo a Venezia? Forse non come a Parigi o Milano, ma anche a Venezia si era cominciato a progettare in grande. E così quella che oggi è via Garibaldi, a Castello, negli anni del dominio francese diventò il primo vero e ampio rettifilo veneziano – alle spese di un canale faticosamente interrato – e archi trionfali in cartapesta sul Canal Grande, scenografie maestose quanto effimere, avevano celebrato l’arrivo di Napoleone a Venezia nel dicembre del 1807.
Ma andiamo per ordine.
Ingresso di Napoleone a Venezia, 1807
Il 1797, si sa, è l’anno cardine: quello della rovinosa caduta della Serenissima Repubblica di Venezia per mano dei francesi. Ma in realtà, il governo che quel maggio vi si insediò non fu napoleonico bensì una “municipalità provvisoria” locale, la Repubblica Democratica Veneta. Neanche a dirlo, questo esperimento durò pochissimo, solo qualche mese, tanto che a ottobre Napoleone già aveva ceduto lo Stato Veneto all’arciducato d’Austria, in virtù dello sventurato trattato di Campoformio e degli accordi segreti di Leoben.
E poi però vi fu un secondo “baratto” (o anche Pace di Presburgo, nel 1805), in virtù del quale nel 1806 Venezia tornò sotto il potere francese, fra un entusiasmo cittadino decisamente più diffuso della prima volta, fitto di speranze e aspettative.
Napoleone non tardò a compensare quella fiducia, non solo a parole, ma anche con promesse, in buon parte poi mantenute. E a “regalare” ai veneziani (e a sé stesso) la possibilità di ripensare e reimmaginare la propria città in chiave moderna, con strade ampie, grandi edifici pubblici, parchi verdi in cui andare a cavallo, servizi commerciali e militari.
Guillon Lethière, "Traité de Leoben, 17 avril 1797"
Si era ora nel Regno Italico: re d’Italia è Napoleone; il vicerè è Eugenio di Beauharnais, figlio dell’imperatrice Giuseppina. Venezia vestiva all’improvviso i panni di “seconda città” del Regno, dopo la capitale Milano. Come tale, a Venezia venne chiesto un apparato di rappresentanza all’altezza di una corte reale. E quale luogo avrebbe mai potuto essere più simbolicamente potente, se non l’area di Piazza San Marco? Il vero cuore di Venezia era il sito idealmente perfetto per sovrapporre il nuovo potere napoleonico a quello ormai passato, ducale.
Quando, nel dicembre del 1807, Napoleone trascorse una decina di giorni a Venezia, soggiornò a Palazzo Ducale e, nonostante le stanze fossero state dotate di nuovi letti “alla francese”, ne sperimentò l’inadeguatezza: l’antico palazzo non era certo il luogo ideale per ospitare una corte reale francese e i suoi bisogni.
La costruzione di un nuovo Palazzo Reale, sempre nell’area di San Marco, era però già iniziata. E la chiesa di San Marco, che era stata fino a quel momento la cappella palatina del palazzo Ducale, era divenuta cattedrale. La sede ducale veniva svuotata, e il centro del potere spostato di qualche metro.
Prima e dopo. A sinistra la Chiesa di San Geminiano in fondo alla Piazza, in un dipinto di Canaletto (1723-24); a destra l’Ala Napoleonica del Palazzo Reale, ora sede del Museo Correr
Se oggi ci fermiamo in mezzo a Piazza San Marco e volgiamo le spalle alla basilica di San Marco, avremo di fronte a noi, in fondo al profondo spazio monumentale, l’edificio che ne chiude il lato corto, ossia l’Ala Napoleonica, chiamata anche Procuratie Novissime, costruita a partire dal 1807 per ospitare la grande sala da ballo reale.
Se invece in mezzo alla piazza ci fossimo fermati, ad esempio, nel 1806, davanti a noi si sarebbe parato un edificio del tutto diverso: la chiesa di San Geminiano, opera sansoviniana abbattuta nel 1807 per costruire, appunto, l’Ala Napoleonica.
E poiché il Palazzo Reale non poteva consistere nella sola sala da ballo, tutta l’ala delle Procuratie Nuove (quella che, per intenderci, si troverebbe alla nostra sinistra, spalle alla basilica), venne ricostruita per ospitare la corte. Alle sue spalle, sul bacino di San Marco, venne atterrata la grande fabbrica merlata dei Granai di Terranova per far posto ai “Giardini Reali”, che vediamo ancor oggi.
Sempre con più forza, dunque, Venezia si trovò a doversi misurare con un metro che fino a quel momento le era sempre stato estraneo; se infatti aveva vissuto per secoli della propria peculiarità, tanto da fondare su di essa il proprio mito, ora doveva - e voleva - commisurarsi con la “modernità delle altre città del Regno.
Per far questo, una neo-composta Commissione all’Ornato imbastì un grandioso piano che di fatto si prefiggeva di aggiornare il volto di Venezia, senza remore conservative del tessuto urbano, come già s’è visto per l’area marciana. Napoleone approvò e promulgò una legge per finanziarlo. L’attuazione delle precedenti leggi napoleoniche per la riduzione o soppressione delle corporazioni religiose (e incameramento dei loro beni) fece il resto: fra il 1806 e il 1814 in alcune zone di Venezia venne messo in pratica un sistematico abbattimento di chiese, monasteri, ospedali religiosi, conventi e altri luoghi pii, determinando la scomparsa di intere aree urbane.
Caso emblematico ne è il sestiere di Castello, la cui punta orientale estrema venne interamente sgomberata per fare spazio ai nuovi Giardini Pubblici. A farne le spese furono il monastero di San Domenico, la chiesa e il seminario di San Nicolò, il monastero, la chiesa e l’ospizio delle Capuccine, la chiesa, l’ospedale e il monastero di Sant’Antonio di Castello, l’Ospedale di Messere Gesù Cristo e il monastero di San Domenico. Rasi al suolo. Al loro posto, un giardino all’italiana, con prati verdi e siepi, viali con statue, una collinetta all’inglese, una passeggiata lungo la laguna sud e un caffè.
E poiché una città moderna non vuole solo palazzi reali con sale da ballo e parchi verdi, ma anche infrastrutture all’altezza, si decise di aprire i grandi cancelli di ferro dei Giardini Pubblici non sull’antico rio di Sant’Anna, che li avrebbe lambiti a ovest, ma su un moderno asse stradale: la vasta via (non calle) Eugenia, dal nome del viceré, ottenuta grazie alla copertura del canale (l’odierna via Garibaldi).
I piani della Commissione prevedevano, fra l’altro, anche un maestoso viale di passeggiata alla Giudecca e una vasta piazza d’armi, che per motivi economici non vennero realizzate, e l’istituzione di un porto franco nell’isola di San Giorgio, che invece vide attuazione, accompagnata dalla realizzazione di una darsena segnalata da quelle torrette bianche che oggi scorgiamo dalle fondamenta sul bacino.
In quel periodo venne anche progettato e realizzato il nuovo cimitero di Venezia nell’isola di San Cristoforo, nella laguna nord, che sarebbe stato ampliato qualche decennio dopo nell'isola di San Michele.
La lunga mano napoleonica non si limitò alle “periferie” veneziane, ma agì in modo incisivo e permanente su tutta la città di Venezia; e di sicuro non agì da sola, sostenuta da un anelito alla modernità che le fu episodicamente fatale. Questo racconto ha termine nel 1814, alla caduta di Napoleone, quando il Lombardo-Veneto entrò a far parte dei possedimenti italiani dell'Impero Asburgico; l’inesorabile processo di “modernizzazione” era stato però ormai avviato anche per Venezia, sempre meno “isola”.