CULTURA

Verso il '22. Incendio in villa

La villa che viene invasa e messa a fuoco dai contadini - in parte condotti alla lotta, in parte sfuggiti al controllo delle Leghe bianche – è una villa Marcello, a Badoere. Domenica, lunedì e martedì 6, 7, 8 giugno 1920: la tre giorni del bolscevismo bianco, quando il sindacato cattolico dei lavoratori della terra mobilita 150.000 contadini in una provincia di 550.000 abitanti (solo 7.000 le leghe rosse e 10.000 quelle repubblicane).

Non è storia locale, ma un meraviglioso incastro di storie di classe, di partito e di chiesa - e anche di rituali e antropologia culturale - che, interagendo, esemplificano una svolta della storia nazionale. Anzi, una svolta e una contro svolta. Una settimana dopo l’incendio rivoltoso, parte   infatti l’ultimo governo Giolitti. E, a far argine accanto ai liberali, l’ottuagenario leader dell’anteguerra - l’età giolittiana – chiama per la prima volta al governo i popolari. Anzi, a uno di loro, affida proprio il ministero dell’Agricoltura.  

Torniamo a Morgano e a Badoere, nelle campagne trevisane. Tutto è importante e, al di là dei fatti materiali, assume valore simbolico in questo episodio cruciale delle trasformazioni in corso. Siamo in un avamposto della storia, dove antico e nuovo collidono. Vi convergono matrici e itinerari difformi. Clio – la musa della storia e della storiografia - si è divertita a concentrare ‘tutti’ qui, al momento buono: uno dei tanti ‘momenti buoni’ che poi si continua per generazioni a domandarsi se è così che necessariamente dovevano andare le cose o avrebbero potuto   prendere un’altra piega. Intanto il grande cognome dogale non è solo una delle solite sopravvivenze, il nome che rimane a una villa veneta, mentre la proprietà è passata di mano. Nicolò Marcello rimane il padrone, è il più grande proprietario agrario della zona, la controparte del movimento contadino; suo nipote Jacopo sarà fra poco sindaco e poi podestà fascista.

La location veneta in cui esplode irruente questo teatro di strada in forma di jacquerie prevede, naturalmente, oltre la villa, parroci e vescovi in dose adeguata. Siamo nella Diocesi del Papa: inteso come il pontefice precedente, il trevisano Giuseppe Sarto, Pio X, morto un quinquennio prima; ma c’è un suo uomo alla testa della Diocesi di Treviso, Andrea Giacinto Longhin (poi beatificato); il ‘vescovo del Piave’ - lo si denomina compiaciuti, in una fase strategica di trapasso dal clericalismo estraneo allo Stato a una nuova stagione, in cui i sacerdoti vanno innervando il neonato Partito Popolare e si propongono per una possibile successione ai vertici dello Stato. Nel Partito Popolare Italiano stanno infatti contemporaneamente - e lo votano – latifondisti, proprietari, fattori, mezzadri, piccolissimi proprietari contadini. L’attacco - dal basso – alla villa padronale e l’arrivo - in alto - al ministero dell’Agricoltura sono le due facce dell’ossimoro. Quattro deputati su sette sono andati al ‘partito dei preti’, nato già grande, nelle elezioni del novembre 19. Deuteragonista il giovanissimo onorevole Guido Bergamo, che scalza il vecchio parlamentare giolittiano dal suo storico collegio di Montebelluna, alla testa dei contadini ex-combattenti della cosiddetta ‘repubblica di Montebelluna’: tanto giovane - il dottor Bergamo, pluridecorato ufficiale degli Alpini - da non veder convalidata la sua elezione alla Camera; ma potente e influente nel territorio, grazie alla rara saldatura da lui espressa  fra esperienza di guerra e masse contadine, volontà politica di una patria interventista e ubbidienza di masse da incanalare e dirigere. Ovvio lo scontro fra egemonie in atto e in potenza, cattolici e bergamini: non vogliono esattamente le stesse cose, ma i tratti rivendicativi e la base sociale in comune non mancano. E perciò: levati tu che mi ci metto io; e la concorrenza - come è nell’ordine dei tempi – conosce anche le forme della violenza. Il capo politico dei popolari è in ultima analisi il vescovo Longhin, un duro, che sa manovrare a dovere i suoi; ma il paesaggio trevisano è prezioso e rappresentativo perché non mancano capi sindacali, organizzatori e agitatori ai più diversi livelli di scala. Giuseppe - per tutti Bepi - Corazzin è il più famoso e attivo fra i cinque fratelli Corazzin, di Arcade, gruppo sociale emergente, figli di un piccolo segretario comunale e di una maestra. Un dotatissimo tuttofare, un po’ troppo carico di ardore talvolta, ma sempre disposto a retrocedere se preso con le giuste maniere, cioè dal lato della sua inconcussa fede religiosa. Efficace giornalista, anche, raro direttore laico di un settimanale diocesano, la Vita del popolo, e poi dal 15 ottobre 1919 del quotidiano filo-popolare “Il Piave” - nome tutt’altro che neutro; Bepi ha potuto essere a suo tempo neutralista, ma poi è stato come gli altri in trincea, un suo fratello è andato volontario, un altro è fra i Caduti: con quelli come lui la difficile ricucitura storico-psicologica fra chi la guerra l’ha voluta e chi l’ha fatta, si può tentare.

Bel personaggio anche suo fratello Luigi, deputato e autore di numerosi testi teatrali per le piccole compagnie che fioriscono all’ombra delle parrocchie e degli ordini religiosi. Caso o no, la sede in cui convergono le associazioni cattoliche trevisane è Palazzo Filodrammatici.

Legato ai luoghi è anche Ottavio Dinale, che ai primi del secolo ha cercato di impiantare in zona il socialismo, poi è stato sindacalista rivoluzionario, interventista; sarà fascista, prefetto, confidente e memorialista di Mussolini sino all’ultima ora; e padre del prefetto ‘repubblichino’ di Vicenza, Neos Dinale. Un concentrato di storia d’Italia.

Qualcuno fra  gli studiosi - Livio Vanzetto, Luigi Urettini, Amerigo Manesso, Lucio De  Bortoli, Ernesto Brunetta, che non da ora hanno analizzato il caso - ha  anche ridato vita a una folla di micropersonaggi,  come il capolega più influente, Aurelio Crosato, mezzadro con dodici figli,    ascoltatissimo fra i leghisti bianchi: finché il movimento di massa lo sopravanza e lui non ce la fa più a mediare e a guidare; e quello che doveva essere, da una villa e da un proprietario all’altro, una sorta di recita sociale in cui, penetrando via via nelle stanze più segrete della  magione, i contadini, ospiti inconsueti, riescono a far firmare al proprietario intimidito i nuovi patti agrari, cambia genere: da commedia a dramma, coralmente vissuto – comprese, senza le ‘quote rosa’, anche molte donne. Marcello non si fa trovare, non firma. Assalto alla cantina. La villa prende fuoco. ‘Delitto di folla’, sanzioneranno i giudici al processo, comminando comunque decenni di carcere: dei 52 inquisiti nessuno sa nulla, nessuno ricorda nulla; e gli avvocati del Partito Popolare - proprietari essi stessi e che hanno fatto il possibile per sconfessare il moto – accorrono a salvare il salvabile, derubricando la cosa, alla luce degli studi d’epoca sulle élite e la psicologia della  folla.

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