Vincenzo Gallucci e la sua équipe al lavoro in sala operatoria
Schivo e taciturno, tenace e determinato, di “impenetrabile intima timidezza”, incredibilmente gentile, colto e pieno di umanità. Aveva una “dialettica e una logica sintetica”, un’asciutta gestualità. Trasmetteva insieme forza e naturalezza e si esprimeva in sala operatoria con “armoniosa ed elegante abilità chirurgica”. La sua imperturbabilità anche nelle situazioni più difficili era proverbiale. Sono parole che ricorrono, queste, tra chi ha condiviso con Vincenzo Gallucci la quotidianità delle corsie ospedaliere. Ricordi che gli allievi consegnano a un volume pubblicato sul finire del 2016, in occasione dei 25 anni dalla scomparsa, dal titolo Vincenzo Gallucci. Uomo, Chirurgo, Studioso, Maestro.
A dargli la fama fu il trapianto di cuore che eseguì, primo in Italia, la notte del 14 novembre 1985, anche se secondo qualcuno “sotto il profilo chirurgico questa operazione non rappresentò nulla di formidabile, come furono invece tante altre ‘prime volte’”, in particolare nell’ambito della chirurgia dei grossi vasi e nel trattamento delle cardiopatie congenite in età neonatale. La sua abilità chirurgica era frutto di anni di studio e lavoro incessanti e assidui, prima a Padova nel gruppo di Pier Giuseppe Cevese, poi a Parigi nel centro cardiochirurgico dell’Hôpital Broussais e, infine, in America. Qui trascorse cinque anni, al Memorial Hospital di Charlotte diretto da Paul W. Sanger, dove lavorò a fianco di Francis Robicsek esperto di cardiopatie congenite, e alla Baylor University di Houston a fianco di due colossi della cardiochirurgia come Michael DeBakey e Denton Cooley. Gallucci tornò a Padova nel 1969 nella clinica chirurgica diretta da Cevese. Fu l’inizio di una brillante carriera: negli anni successivi ottenne il primariato del centro di cardiochirurgia e la cattedra di chirurgia cardiovascolare all’università di Padova.
L’esperienza americana gli permise di introdurre nel “piccolo mondo del Policlinico” nuove tecniche chirurgiche fino a quel momento sconosciute e un nuovo modo di lavorare intorno al paziente che vedeva non solo chirurghi, ma patologi, fisiopatologi cardiovascolari, cardiologi pediatrici, anestesisti-rianimatori collaborare fianco a fianco. Era un lavoro di squadra, ben noto Oltreoceano dove il medico si era formato, a cui Padova però non era ancora abituata. Gallucci sceglieva personalmente i suoi collaboratori, puntando su persone che fossero “al digiuno dalle preesistenti abitudini del luogo” e l’unico modo per far parte del gruppo era il merito. “Noi allievi della prima ora – ricorda Carlo Valfrè – provenienti da una preparazione di scienze di base e che conoscevamo l’ambiente delle cliniche universitarie solo in qualità di studenti frequentatori delle lezioni accademiche, costituivamo pertanto un terreno vergine ideale da dissodare e trasformare in collaboratori che rispondessero alle sue esigenze”.
Insegnava agli allievi con l’esempio, con pochissime parole sussurrate nei momenti meno attesi. Impartiva ordini senza parlare e solo da “minimi cenni del capo e impercettibili modifiche della mimica facciale” si intuiva la sua approvazione o il suo disappunto che si risolveva in brevi frasi di circostanza o secchi rimbrotti. Ogni mattina Gallucci operava per ore senza dare alcun segno di stanchezza e ogni notte andava in rianimazione per un ultimo controllo dei suoi pazienti. Qui trovava i suoi studenti intenti a controllare l’andamento dei pazienti, attitudine a cui il maestro li aveva abituati. Educava all’umiltà, al rispetto della persona, alla curiosità. Quella curiosità che, dopo l’attività chirurgica, spingeva il medico a rientrare nel proprio studio e a spulciare tra articoli e riviste in cerca di una risposta a qualcosa di insoluto. Chirurghi non si nasce, si diventa. Gallucci ne era convinto. E riteneva che l’unico modo per imparare fosse osservare: la prima volta guardi, la seconda fai. L’esperienza all’estero era considerata altrettanto importante e su questa strada indirizzava i suoi studenti.
Tutti riconoscevano, e riconoscono, la sua inusuale abilità chirurgica. Non c’è collega o allievo oggi che non citi l’eleganza, la precisione, l’autocontrollo che caratterizzavano il suo incedere chirurgico. C’è chi lo paragona a un direttore d’orchestra che “suonava i tempi della strategia chirurgica con armonia senza pari” e chi ritiene che la sua manualità non fosse calligrafismo ma perfezione del movimento, simile a quella di una ballerina che si esprima al massimo dell’eleganza. “Questo atteggiamento taciturno, ma rassicurante – osserva Alessandro Mazzucco, uno dei suoi allievi – trovava la sua massima espressione in sala operatoria, dove il suo muoversi e il suo muovere le mani ricordava l’essenzialità, l’agilità, l’infallibilità di un felino nel catturare la preda: sempre comunque sorprendente, elegante, non priva di un suo aspetto estetico”. Durante gli interventi sapeva mantenere la calma e il distacco anche nelle situazioni più difficili e questo infondeva tranquillità all’intera équipe.
“Mai temerario ma fattivo ed efficace”, di poche scarne parole con colleghi e allievi, sapeva invece essere particolarmente socievole durante i momenti di convivialità che condivideva con persone a lui particolarmente vicine. Intratteneva gli amici con conversazioni stimolanti che lasciavano trasparire interessi artistici e musicali e tradivano un inaspettato senso dell’umorismo. E non mancava qualche punta di frivolezza, come il gesto di aggiustarsi i capelli con un pettinino che impercettibilmente estraeva dalla tasca ogni volta che doveva salire sul podio per parlare.