Gli scontri a Belfast. Foto: Reuters
C’è un problema in Irlanda del Nord, di nuovo. Scontri durissimi, bande di rivoltosi nelle strade, le divise della polizia come bersagli di molotov e mattoni: una pagina buia, di rabbia repressa, di conflitto mai risolto. «Erano anni che non si vedevano scene del genere a Belfast», ha commentato un funzionario di polizia. Dagli anni dei Troubles, nei tre decenni dal 1968 al 1998. Oggi la violenza è tornata: più di 90 gli agenti finora rimasti feriti, e l’impressione è che sia andata perfino bene: se nessuno finora è morto è stato soltanto un caso. È così da due settimane, e non soltanto nella capitale: Londonderry, Ballymena, Newtonabbey, Carrickfergus. Spesso di notte. E spesso i più agguerriti sono giovanissimi di 13, 14 anni, bande di ragazzini fuori controllo (o al contrario molto controllate, quasi manovrate, lo vedremo più avanti): alcuni di loro sono stati fermati e poche ore dopo rilasciati. Anche un fotografo del Belfast Telegraph è stato aggredito nei giorni scorsi, mentre seguiva le proteste. Il premier britannico Boris Johnson si è detto «profondamente preoccupato per quanto sta accadendo in Irlanda del Nord: le differenze si appianano con il dialogo, non con la violenza». Condanna dei disordini anche dai governi di Belfast e di Dublino. Tutti i principali partiti dell’Irlanda del Nord hanno chiesto una «fine immediata e completa» delle violenze. Mentre il presidente americano Joe Biden, di origini irlandesi, ha implorato «il ritorno alla calma».
Disordini ai “muri della pace”
Il racconto degli scontri è abbastanza ordinario, visto dall’esterno. Ricalca in grandi linee quel che accade un po’ ovunque: rabbia, armi improvvisate, bengala, bottiglie incendiarie, fuoco, vandalismi (un autobus è stato “dirottato” e poi incendiato dai manifestanti la sera del 7 aprile sulla Shankill Road, a Belfast), pneumatici dati alle fiamme. Gli agenti della PSNI (Police Service of Northern Ireland) tentano di arginare, di contenere, spesso senza troppe cerimonie (di norma usano cannoni ad acqua) perché aggrediti con una violenza e una determinazione che fa paura. Dopo gli scontri di venerdì scorso, l’ispettore capo Darren Fox ha dichiarato: «Sono state scene vergognose, durate fino all'una di notte, nelle strade della nostra città: quello dei manifestanti è un comportamento criminale sconsiderato e pericoloso. Un nostro ufficiale è rimasto a terra privo di sensi e portato in ospedale». L'assistente capo Jonathan Roberts, usando il tono informale dei rapporti di polizia, ha riferito invece che la sera precedente folle di manifestanti si sono raccolte su entrambi i lati dei cancelli che separano un'area lealista da una nazionalista (le Peace Lines, Peace Walls o Interface: muri di cemento, metallo e filo spinato nati proprio per separare le opposte fazioni. Qui una mappa di quelle presenti nella capitale) a Shankill Road, nella parte ovest di Belfast: «Si è verificata una violenza prolungata diretta verso gli agenti di polizia su entrambi i lati dell’Interface per un periodo di ore». “Entrambi i lati”: quindi lealisti contro nazionalisti, di nuovo. I rivoltosi fermano auto in transito, le incendiano e le lanciano contro le linee della polizia, che si trova inesorabilmente nel mezzo.
Quel che è più complesso è ricostruire le ragioni che stanno spingendo queste centinaia di giovani e meno giovani a scendere in piazza con una simile determinazione e a sfidare la polizia, rischiando la vita e la libertà (a due adulti fermati dopo gli scontri della scorsa settimana è stata negata la libertà su cauzione perché il giudice ha valutato troppo alto rischio di recidiva). Di certo c’è un problema identitario che s’intreccia con la Brexit e con il compromesso (il Protocollo su Irlanda e Irlanda del Nord), raggiunto pochi mesi fa dal governo di Boris Johnson con l’Unione Europea. La prima manifestazione sfociata in violenza s’è verificata il 29 marzo scorso, a Londonderry: una quarantina di manifestanti e una “petrol bomb” lanciata contro la polizia. Londonderry è una città “lealista”, vale a dire a favore del mantenimento dell’Irlanda del Nord come parte del Regno Unito. Dopo qualche giorno il fulcro delle proteste s’è spostato nella capitale Belfast e in particolar modo a ridosso delle Interface, i “muri della pace” che di fatto separano le comunità lealiste, prevalentemente protestanti, da quelle nazionaliste (a maggioranza cattolica), che invece vorrebbero un’Irlanda unita e indipendente.
Foto: Reuters
Il fantasma dei Troubles
La divisione, la conflittualità, il profondo rancore tra cattolici e protestanti, e tra nazionalisti e unionisti, segna nel profondo la storia dell’isola d’Irlanda, fin dalla sua divisione in due differenti stati, nel 1922, al termine della Guerra d’indipendenza: la piccola Irlanda del Nord, divisa in 6 contee, ancora oggi parte del Regno Unito, e l’assai più estesa Eire (Repubblica d’Irlanda), uno stato indipendente, ma con uno status di “dominion” all’interno dell'Impero Britannico. Un compromesso fragile, come ha poi dimostrato il divampare dei Troubles, la guerra civile che per tre decenni ha insanguinato l’Irlanda del Nord, per l’azione di gruppi paramilitari. Da un lato l’Irish Republican Army (a tutti più nota con l’acronimo Ira) che attraverso la lotta armata voleva porre fine al dominio britannico in Irlanda del Nord e riunificare l’Irlanda sotto un unico stato, autonomo, indipendente. Dall’altro l’Ulster Defence Association, legata agli unionisti dell’UUP (Ulster Unionist Party), determinata a restare sotto la Corona. Nel 1972 il governo britannico sospese la semi-autonomia dell’Irlanda del Nord, riprendendo il controllo diretto del governo (è del 30 gennaio di quell’anno la strage del Bloody Sunday, quando paracadutisti britannici aprirono il fuoco contro un gruppo di manifestanti pacifici a Londonderry, uccidendone 14: qui alcune immagini dell’epoca, in un evento simbolo che fu poi cristallizzato in ogni forma d’espressione artistica, scritta, filmata e cantata). Il bilancio di quei trent’anni di guerra civile fu di oltre 3600 morti, perlopiù civili, e un inestricabile stallo di dolore e di tensione, tra bombe e attentati. Fino agli accordi di pace del “Venerdì Santo”, firmati il 10 aprile del 1998, che si basarono sul principio di far lavorare le due parti insieme, in un gruppo chiamato Assemblea dell'Irlanda del Nord. Fu sancita la parità, l’uguaglianza e il reciproco riconoscimento delle due comunità, unioniste e nazionaliste, oltre all’impegno allo smantellamento delle organizzazioni paramilitari. Fu anche stabilita l’apertura dei confini tra le due Irlande. Il governo di coalizione dell’Irlanda del Nord è oggi guidato da Arlen Foster, leader del Dup (Democratic Union Party), mentre il vice ministro è Martin McGuinness del Sinn Féin, partito nazionalista.
La variabile Brexit e il nuovo confine
Accordo sì, ma fragilissimo. E la recente questione della Brexit ha riportato alla luce le antiche divisioni, i malumori, i rancori. I sostenitori filo-britannici sono spiazzati per l’accordo che la Gran Bretagna ha firmato per lasciare l’Unione Europea, entrato in vigore a gennaio, che di fatto indebolisce il legame tra Irlanda del Nord e Regno Unito. Boris Johnson in sostanza, con una mossa che ha consentito di superare lo stallo nei negoziati, ha accettato che l’Irlanda del Nord rimanesse sia nel mercato comune europeo sia nell’unione doganale, con un confine non in terra, ma in mare. Questa formula ha permesso di evitare che nascesse una “barriera commerciale” tra le due Irlande, Ma l’ha fatta nascere con il Regno Unito: le merci che dalla Gran Bretagna arrivano a Belfast devono sottostare a controlli doganali (inizialmente si è anche verificata una drastica riduzione della disponibilità di prodotti alimentari nei supermercati), spingendo il Paese sempre più a un’unione di fatto con l’Eire. Per gli unionisti è un tradimento. E perciò chiedono che il Protocollo sia rivisto o, ancor meglio, cancellato. Ma all’ipotesi che l’applicazione dell’accordo possa essere posticipato al 2024 l’Ue ha già risposto picche minacciando ritorsioni. Sbrogliare il nodo non sarà semplice, tra un governo britannico accusato di aver ceduto sul confine marino (l’Ue proponeva un confine tra le due Irlande, Johnson ha detto no) per arrivare nei tempi stabiliti a un accordo con l’Europa e un’Unione Europea a sua volta criticata per non aver previsto quali enormi tensioni politiche un’intesa del genere avrebbe provocato nel Paese (di fatto, di aver pensato soltanto alle questioni commerciali). L’Irlanda del Nord resta così un’incompiuta, una sorta d’intralcio lì nel mezzo. Il Loyalist Communities Council (LCC) ha già dichiarato che, come forma di protesta, ritira temporaneamente il suo sostegno all’accordo del Venerdì Santo. Una minaccia.
Questo il quadro “politico”, che da solo però non basta a spiegare la traduzione del malcontento in aperta violenza. Di mezzo c’è perfino un funerale, celebrato nel giugno 2020, di un ex membro storico dell’Ira, Bobby Storey, al quale parteciparono circa duemila persone in violazione alle norme imposte per contenere la diffusione della pandemia. Compresi 24 membri del Sinn Féin, il partito nazionalista che condivide la coalizione di governo con il Dup (unionista). La decisione del capo della polizia, Simon Byrne, di non perseguire i partecipanti ha fatto esplodere la rabbia dei “lealisti”: dapprima indirizzata verso la polizia, ma poi s’è riacceso il conflitto verso gli indipendentisti. Ma una ripresa così capillare degli scontri, con il coinvolgimento di bande di minorenni, nelle città controllate dai lealisti fanno supporre agli investigatori un ruolo di primo piano, o comunque di coordinamento dietro le quinte, di gruppi paramilitari unionisti come l’Ulster Volunteer Force e l’Ulster Defence Association (Uda). Messaggi di “chiamata alle armi” stanno circolando sui social. Il commissario per l’infanzia dell’Irlanda del Nord, Koulla Yiasouma, si è spinta a sostenere che «gli adulti che costringono i bambini a prendere parte a scontri violenti devono essere fermati: è sfruttamento criminale, è coercizione». Peraltro, nei giorni scorsi diversi militanti dell’Uda (che un poliziotto ha definito “un cartello criminale avvolto in una bandiera”) sono stati arrestati in un’indagine per traffico di sostanze stupefacenti. La vicepremier, indipendentista, Michelle O’Neill, ha puntato apertamente il dito contro «i paramilitari lealisti che stanno orchestrando le violenze», definendoli “nemici della pace”. Il governo di Dublino ha formalmente chiesto a Londra un summit urgente, da tenersi a Belfast, tra il Segretario di Stato britannico per l’Irlanda del Nord, Brandon Lewis, e il ministro degli esteri irlandese, Simon Coveney: «E’ nostra opinione che la leadership politica necessaria per stabilizzare la situazione non verrà dall'Irlanda del Nord in questo momento». Boris Johnson, per ora, ha detto no. Per il timore di turbare gli unionisti, perché un vertice del genere potrebbe essere letto come un’eccessiva interferenza dell’Eire negli affari dell’Irlanda del Nord.
Una Brexit “di destra”?
Così la tensione, anche tra i partiti politici, resta ben oltre il livello di guardia. Arlene Foster, premier nordirlandese, leader del Partito Unionista Democratico, ha preso una netta distanza dagli scontri ma senza risparmiare critiche allo Sinn Féin: «Questa non è protesta», ha scritto su Twitter. «Questo è vandalismo e tentato omicidio. Queste azioni non rappresentano sindacalismo o lealismo. Sono motivo di imbarazzo per l’Irlanda del Nord e servono solo a distogliere l'attenzione dai veri trasgressori della legge nello Sinn Féin». Gli indipendentisti a loro volta replicano accusando gli unionisti di aver avallato la Brexit voluta da Boris Johnson: «Il sostegno del Dup a una forma di “Brexit di destra” ha provocato enormi problemi all’isola d’Irlanda», ha dichiarato John O’Dowd, esponente dello Sinn Féin. Il ministro della Giustizia nordirlandese, Naomi Long, ha invece accusato Londra di aver «negato l'esistenza dei confini anche se quei confini venivano eretti». Secondo Alistair Campbell, giornalista ed ex spin doctor di Tony Blair, «Boris Johnson sta mettendo a rischio la pace in Irlanda del Nord».
A Belfast e non solo la tensione resta altissima, anche se alcune marce unioniste sono state rinviate alla notizia della morte del principe Filippo “in segno di rispetto per la regina e la famiglia reale”. Ma è soltanto un’esile tregua. «Nelle strade dell’Irlanda del Nord e nei corridoi di Stormont (sede del Parlamento nordirlandese, ndr), stiamo assistendo ai segnali di una crescente crisi democratica per l’applicazione dell’accordo sulla Brexit tra il Regno Unito e l'Unione europea», scrive su Politico Katy Hayward, docente di sociologia politica alla Queen’s University di Belfast. «Funzionari e politici a Bruxelles e Londra dovrebbero prendere atto della loro responsabilità nel condurre questo accordo a una conclusione pacifica». Come dire: la miccia in Irlanda del Nord ormai è stata riaccesa. Ora bisognerà impegnarsi, tutti, per trovare il modo di spegnerla prima che sia troppo tardi.