Foto: Cédric Dhaenens/Unsplash
Per Dale Jamieson, la sfida posta dalla crisi climatica è una questione non solo politica e collettiva, ma prima di tutto personale. In apertura della sua lecture tenutasi a Padova il 24 maggio, dal titolo Climate, Carbon, and What Really Matters, il grande filosofo statunitense avverte il proprio pubblico: «Vi racconterò una storia molto personale, quella di come ho imparato cosa sia il cambiamento climatico e di come questa consapevolezza abbia radicalmente cambiato la traiettoria della mia vita». Nelle diapositive che scorrono, durante il discorso, agli anni si affiancano altri numeri: sono le parti per milione (ppm) di anidride carbonica accumulate nell’aria, a segnare la materialità di un problema che è tanto globale quanto individuale.
Dale Jamieson, professore di Studi Ambientali e Filosofia e direttore del Center for Environmental and Animal Protection alla New York University, è stato tra i primi a portare la questione del cambiamento climatico al di fuori dei laboratori di fisica atmosferica: «Nei primi anni ’80, quando ho scoperto dell’esistenza della questione – racconta il professore – il cambiamento climatico era un tema di ricerca esclusivamente in ambito scientifico.
Servizio di Sofia Belardinelli, montaggio di Barbara Paknazar
Una delle prime lezioni che ho appreso sull’argomento è che per noi umani è difficile adattarci alla variabilità climatica, e che a soffrire di un cambiamento inusualmente rapido come quello attuale sono soprattutto i più poveri e gli impotenti. Questo significa che il repentino cambiamento delle condizioni climatiche a cui oggi assistiamo pone in maniera diretta questioni etiche di giustizia, di valori, di responsabilità. È di questo che dovremmo occuparci, tanto dal punto di vista accademico quanto in termini di impegno politico».
Così, l’attività di ricerca di Jamieson si è trasformata in un’importante azione di advocacy, come testimoniano i suoi libri (tra cui Il tramonto della ragione, recentemente tradotto in italiano), per sottolineare il ritardo che abbiamo accumulato e le sfide che dobbiamo affrontare, e per suggerire possibilità di azione.
Spesso, la filosofia di Jamieson è stata tacciata di pessimismo; ma, come egli stesso evidenzia nel corso della lezione padovana, riconoscere i fallimenti e le decisioni sbagliate che si sono susseguiti nei decenni non è altro che realismo, e non coincide necessariamente con una rinuncia all’azione. È un dato di fatto, d’altronde, che c’è ancora molto da migliorare: ad esempio, in materia di comunicazione, perché ancora oggi tanto i media quanto la comunità scientifica cadono ancora nel duplice errore della minimizzazione o dell’esagerazione dell’entità del problema, ottenendo, in entrambi i casi, effetti controproducenti.
D’altra parte, nonostante l’accumularsi di evidenze circa la difficoltà e l’urgenza della situazione, tutti continuiamo a perseverare in una modalità d’azione che il filosofo definisce ‘business as usual’: il mondo economico, la comunità scientifica, la società civile non hanno cambiato le proprie abitudini; lo stesso vale per la politica, per la quale si può infatti parlare di ‘policy as usual’. Quel che manca – Jamieson è stato tra i primi a metterlo in luce – non è un insieme di soluzioni da implementare, ma un modo di pensare adeguato all’enormità della sfida che abbiamo davanti. Quel che dovrebbe cambiare è, in primo luogo, il nostro approccio alla realtà. «Perché questo avvenga – spiega il professore – vi sono tuttavia tre ostacoli: la tendenza a guardare al passato, il tecno-ottimismo e il ‘feticismo del carbonio’. In tutti questi casi, si sollevano diverse questioni etiche. Per quanto riguarda il terzo punto, quel che io chiamo ‘feticismo del carbonio’, ciò che vorrei mettere in evidenza è che, nonostante la riduzione delle emissioni di gas serra e l’abbassamento della concentrazione di CO2 in atmosfera sia un obiettivo desiderabile e che deve certamente essere perseguito, non possiamo pensare che esso sia l’unica soluzione al problema. Non è per nulla certo, al contrario, che un ipotetico mondo carbon-free sarebbe effettivamente un mondo sano, vivibile, giusto. Anche in un mondo in cui il numero di ppm di CO2 in atmosfera tornasse a livelli preindustriali, vivremmo ancora nell’Antropocene, il mondo antropizzato che abbiamo creato, con tutte le contraddizioni ecologiche, sociali e politiche che ciò comporta. Eppure, anche in questo mondo profondamente alterato rispetto a quel che oggi conosciamo, noi umani continueremmo a comportarci come tali: a lavorare, ad amare, a produrre arte e bellezza, tra le altre cose».
Quel che davvero conta, dunque, è rimanere in contatto con la realtà e assumere – personalmente e collettivamente – la responsabilità che questo comporta. Possiamo ancora fare la differenza: quel che conta davvero è come decidiamo di vivere, in che modo decidiamo di divenire agenti di un possibile cambiamento. Sono “aspirazioni modeste”, come Jamieson ammette nel Tramonto della ragione. Eppure, di fronte a un mutamento che è, ormai, inevitabile, e pur con tutta la limitatezza dell’impatto di ognuno, le nostre azioni continueranno ad essere rilevante, e sarà altrettanto rilevante come sceglieremo di vivere, e di agire, nell’antropocene.