CULTURA

Zanon-Armellini, l’onda giovane che può rinfrescare la classica

Cosa occorre a un mondo ingessato, statico e autoreferenziale come quello della musica classica italiana per conquistare un pubblico fresco, che rinverdisca lo stuolo di teste d’argento che domina le nostre sale? Si dirà: una nuova cultura didattica, che ampli l’educazione musicale oltre le poche ore stanche previste dal Ministero. Verissimo: sostiene un musicologo sensibile come il direttore Marco Angius che oggi “nel Dna dei tedeschi c’è la musica. Nel nostro c’è il calcio”. Un bel paradosso per il Paese di Monteverdi, Rossini, Casella. Ma se riformare gli studi in senso musicale è un’impresa, forse si può cominciare dal basso: sfruttando talenti giovani e straordinari, che in Italia abbondano, con politiche di marketing della classica, nel senso più nobile, che rendano questo genere meno alieno ai ventenni.

Non si tratta di svilire l’arte e lo studio matto alla base delle carriere, per citare solo qualche nome, dei Cardaropoli, Gibboni, Rana. Ma di rinunciare a un po’ di snobismo, scendere nell’arena social, non disdegnare sedi di contatto tra mondi musicali (e pubblici) completamente diversi. Pensiamo a un fenomeno come David Garrett, in grado di suonare il concerto di Tchaikovsky a un pubblico pop suscitando emozioni da Springsteen (e non solo per il suo look, che indubbiamente aiuta) mantenendo un buon livello qualitativo. Riflessioni inevitabili, ascoltando in duo, al Toniolo di Mestre, due musicisti veneti, giovani e già di fama internazionale: Leonora Armellini e Giovanni Andrea Zanon. Se il prestigio di Armellini è consolidato da tempo, e non serve il recente piazzamento al Premio Chopin a ricordarcelo, Zanon è un fenomeno deflagrato più di recente. Ventiquattro anni appena compiuti, di lui sappiamo che, nelle campagne di Castelfranco, a due anni gli ficcavano un violino in mano, a quattro veniva ammesso al Conservatorio, e ogni volta che eseguiva bene gli esercizi gli regalavano una gallina, arrivando a conquistarne 96. Aneddotica a parte, il suo talento abbagliante e la formazione con un violinista geniale come Pinchas Zukerman gli sono valsi una visibilità da giovane star, con l’approdo a quei palcoscenici mondiali di confine come l’Arena di Verona e le Olimpiadi di Pechino (dove, tra parentesi, ha dovuto piegarsi a un agghiacciante arrangiamento dell’Inno di Mameli con Malika Ayane: opportunità mediatica straordinaria, opportunità musicale sprecata). Da qui, uno come lui potrebbe e dovrebbe partire, per scalare pubblici giovanili e mondi musicali contigui.

Ma al Toniolo eravamo nella consueta, intiepidita atmosfera da sala di classica. Smisurato il programma, che nessun musicista in età sosterrebbe: Sonata “a Kreutzer” di Beethoven, Sonata di Franck, Tzigane di Ravel. La nota dominante del suono di Zanon, e del suo violino Guarneri del Gesù, è la dolcezza, unita a uno stile decisamente neoromantico, con vibrato ricco e chiaroscuri marcati. Per questo, il titanismo della “Kreutzer” appariva, all’inizio, spiazzante: come se Zanon (pur bravissimo) faticasse un po’ a moderare il registro lirico e tuffarsi nel vortice virtuosistico dell’energia drammatica richiesta dalle variazioni, dall’enfasi di una sonata che, al debutto, sdegnò la critica (e fu ripudiata da Kreutzer, il destinatario della dedica) per il suo eccedere in modo così abnorme gli stilemi precedenti. Per contro, Armellini mantiene per tutta l’esecuzione una coerenza di toni, dipanando la partitura con piglio impeccabile, ferreo: che a tratti, soprattutto all’inizio, sembrava prevalere, più che fondersi, sul canto del violino, intimorito da tante saette sonore.

È con Franck che Zanon trova l’equilibrio perfetto. Lirismo, sensualità, pause, silenzi, piccoli moti dell’animo resi sfumature cromatiche: è esattamente la sua musica, e si sente. Zanon giganteggia e regala un’esecuzione memorabile, pareggiato da Armellini, che sfrutta appieno le occasioni di una sonata che offre al pianoforte spazi e soliloqui di intensità sublime. L’attesa di Ravel, a questo punto, si carica di ansia: come si concilierà il tocco lieve, soave di Zanon con l’impazzimento gitano, il funambolismo dei pizzicati, delle corde doppie, degli effetti sonori con cui Ravel si traveste da Paganini novecentesco, in chiave infinitamente più moderna? Qui Zanon sorprende, e ci chiarisce come un vero artista, anche dopo un momento di incertezza, torni tale con qualsiasi partitura. Il Ravel di Zanon, infatti, non ha niente da invidiare a quello di interpreti più fisici, votati al virtuosismo puro. Il violinista trova, a differenza che nella “Kreutzer”, una nuova, inaspettata, potenza: come se le sonorità gitane rielaborate dal francese giustificassero, ai suoi occhi, una libertà e sfrenatezza d’esecuzione che il rigore di Beethoven non tollerava, contrapponendo alle scabrosità tecniche un’espressività emozionante.

Successo con applausi convinti ma misurati, come si conviene a un pubblico âgé, cui viene perfino regalato un bis kreisleriano. Rimane l’impressione di due giovani fuoriclasse, con diversa esperienza quanto allo stare sul palco, e all’etichetta che è richiesta: durante gli applausi Armellini riceve un bouquet, ne trae un fiore e lo dona a Zanon. Lui, fuggendo dal proscenio, se lo sbatte in tasca.

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