SOCIETÀ

Alluvione: tutti quegli allarmi ignorati

Ancora una volta in Italia si attende che le piogge finiscano di sfogare la loro furia prima di passare alla conta dei danni, che anche stavolta saranno ingenti (e soprattutto speriamo che nessuno si faccia male). Ancora una volta ci si chiederà se tutto questo poteva essere evitato. E la risposta è: forse no, ma sicuramente i disastri potrebbero essere molto mitigati nei loro effetti con una migliore gestione del territorio e le necessarie opere pubbliche. In seguito alla famosa alluvione del 1966 ad esempio, che mandò sott’acqua Firenze e Venezia, una commissione interministeriale presieduta da Giulio De Marchi propose una serie di opere di protezione, come l’ampliamento degli alvei dei fiumi nei tratti in pianura e la realizzazione di una serie di invasi per assorbire almeno in parte le ondate di piena. Dopo oltre mezzo secolo però ben poco è stato fatto, almeno per quanto riguarda il Nord-est: l’unica opera significativa è la diga di Ravedis, che forma un bacino da 23,6 milioni di metri cubi. Mai realizzate ad esempio le dighe sull’Astico a Meda, oppure sul Tagliamento a Pinzano in Friuli, quest’ultima per le opposizioni delle popolazioni interessate dall’invaso. Per non parlare del Mose a Venezia, bloccato da anni da un’inchiesta giudiziaria, e del mancato completamento dell’idrovia. Il risultato è un territorio che periodicamente si scopre vulnerabile e impotente, tra l’altro con sempre maggiore frequenza dopo le alluvioni del 2010 e del 2014. Già nel 2014 Luigi D’Alpaos, docente emerito di idraulica presso l’università di Padova, sosteneva in un’intervista a Il Bo Live che in Veneto i problemi di difesa idraulica sono aggravati da errori di pianificazione territoriale, spesso attuata nella più assoluta ignoranza della rete idrica. In pianura, in particolare, esistono problemi sia a carico della rete idraulica minore (canali, fossi) che della rete idrografica principale, sottodimensionate rispetto alle portate da contenere. 

Gli urbanisti – sostiene lo studioso fin da uno studio pubblicato nel 1985 – sono intervenuti su un territorio concepito per uso agricolo, senza chiedersi se fosse necessario rivedere la rete idraulica esistente. Così in cinquant’anni si è assistito a una cementificazione sempre maggiore, con l’eliminazione degli invasi disponibili nei fossi (spesso invece utilizzati per costruire piste ciclabili), la realizzazione di fognature di tipo misto (che raccolgono sia le acque di rifiuto urbano che meteoriche) e la commistione tra reti fognarie e canali della bonifica.

Un nuovo allarme fu poi lanciato durante il convegno nell’Aula magna di ingegneria il 4 novembre 2016, in occasione dei 50 anni dall’Acqua granda. Tra i relatori Luigi Da Deppo, docente emerito a Padova di costruzioni idrauliche, che sull’argomento aveva appena pubblicato un articolo scientifico dal sottotitolo eloquente: Considerazioni (malinconiche) dopo 50 anni.  Lo studio sottolineava come la grande maggioranza dei 45 serbatoi artificiali nei corsi d’acqua veneti fosse stata realizzata soprattutto tra la fine della seconda guerra mondiale e la metà degli anni ’60, e non con finalità di la protezione idrogeologica. “Per quanto riguarda i corsi d’acqua non è stato fatto praticamente niente”, aveva detto in quell’occasione al nostro giornale Da Deppo, mentre un altro docente, Paolo Salandin, aggiungeva che “se arrivasse una piena come quella del ’66 non saremmo in ottime condizioni. In Italia abbiamo una grande capacità di intervento sul territorio, come dimostra l’azione della Protezione Civile; la nostra incapacità e di fare opere strutturali, inoltre ci siamo dimenticati della manutenzione”. Inutile chiedersi cosa sia stato fatto da allora.

Eppure le ricette sono sempre le stesse: attenzione al territorio – evitando di cementificare troppo, in particolare vicino ai fiumi – e una maggiore manutenzione degli alvei e degli argini, a cui si aggiunge la realizzazione di alcune infrastrutture vitali per la sicurezza. Certo: da noi oggi le grandi opere sono spesso associate, nell’immaginario collettivo e non solo, a fenomeni di corruzione, inefficienze e ritardi, quando non a vere e proprie tragedie come quella del Vajont. Anche il non intervento ha però i suoi costi, come dimostrano le ingenti cifre stanziate ogni anno per le calamità. Non bisognerebbe poi dimenticare come nel 1966 fu proprio una grossa opera infrastrutturale appena inaugurata, la galleria di 10 chilometri tra l’Adige e il Lago di Garda, a salvare Verona dell’allagamento.  Ma ci sarebbe tanto da fare anche se ci si volesse limitare alla mera manutenzione delle opere già esistenti: oggi gli alvei dei fiumi e gli argini sono spesso occupati da piante e insidiati da abitazioni sempre più vicine. “Oggi i danni potenziali di un’alluvione simile a quella del ’66 sarebbero ancora maggiori rispetto a 50 anni fa – concludeva due anni fa l’ingegner Da Deppo –. Per questo intervenire è più che mai necessario”. Vedremo purtroppo tra pochi giorni se aveva ragione. Servirà stavolta?

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