Mario Pinton, spilla "Eva" (particolare), 1958
Possono oreficeria e gioielleria travalicare gli angusti – per quanto raffinati e confortevoli – confini delle cosiddette arti decorative e dell’artigianato per divenire, stando alle parole di Ramon Puig Cuyàs, una compiuta e autonoma “forma di espressione personale, indissolubilmente legata ai valori universali dell’Arte”? Figure come quella di Mario Pinton (1919-2008), le cui opere in questi giorni sono in mostra a Padova, fanno propendere decisamente per il sì. Ma Pinton, “principe dell’arte orafa italiana” secondo lo storico Fritz Falk, non era solo un orafo eccezionale e creativo: il suo è il profilo di un artista completo, dal tratto quasi rinascimentale per forza creativa e varietà d’interessi, che spaziano dagli scritti teorici su geometria e teoria dell’arte alla scultura e persino alla poesia.
Un grande maestro conosciuto in tutto il mondo, finalmente celebrato degnamente anche nella sua città con l’esposizione Mario Pinton. Gioielli, sculture e poesia, aperta fino al 3 luglio al Museo Eremitani e promossa dall'Assessorato alla Cultura e dall'associazione Amici del Selvatico (con il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo).
Figlio a sua volta di un incisore e orefice, Mario Pinton apprende fin da giovanissimo l’arte della lavorazione dei metalli. Dopo essersi formato a Padova, Venezia e Milano si indirizza soprattutto all’arte orafa del gioiello e della medaglistica, mentre l’attività di insegnante e pedagogo lo porterà alla guida dello storico Istituto Selvatico, oltre che a fondare una vera e propria scuola orafa padovana, giunta ormai alla quarta generazione di artisti e artigiani. Assieme ad maestri europei e mondiali è considerato uno degli iniziatori e massimi esponenti della “nuova gioielleria”, e con il tempo il suo nome è divenuto sinonimo di eleganza, raffinatezza e capacità innovativa.
“Mario Pinton rappresenta un’estrema sottigliezza – ha scritto una volta Graham Hughes, che lo invitò a partecipare alla prima esposizione internazionale del gioiello del XX secolo, organizzata alla Golsmiths’ Hall di Londra in collaborazione con il Victoria and Albert Museum nel 1961 –. Il suo lavoro è tra i più delicati d’Europa: fili esilissimi, rilievo bassissimo, modellato squisito, spesso del volto umano o di animali, con una finitura morbida; quasi sempre oro, spesso con un unico piccolo diamante o una pietra preziosa”. Forme sempre originali ma che al tempo stesso sembrano ripercorrere diverse epoche: dagli amati arcaismi mediterranei all’arte contemporanea, passando per il medioevo.
Il gioiello, ci insegnano la storia e l’archeologia, accompagna la civiltà fin dagli albori e, spiega nel catalogo edito da Skira Mirella Cisotto Nalon (curatrice della mostra assieme a Luisa Attardi), ha sempre espresso il gusto tipico del suo periodo. Solo a partire dall’inizio del Novecento però, in particolare con l’Art nouveau o Liberty, esso esce da una condizione di minorità e inizia ad assumere una propria autonoma dignità, anche se non viene ancora percepito come un oggetto a sé stante ma “come un elemento facente parte di un complesso più ampio, armonico e coerente, che offr[e] alla vita familiare e sociale un ambiente ‘bello’ in cui vivere”. Solo a partire dagli anni Quaranta del Novecento infatti esso “diviene importante per se stesso, per ciò che rappresenta a livello di forma, tecnica, per il concetto che esprime e il messaggio che vuole trasmettere”. A prescindere anche dal valore economico dei materiali utilizzati.
Un’epoca pionieristica di cui Mario Pinton è stato uno dei massimi rappresentanti, sempre però in collegamento e dialogo con le correnti artistiche internazionali: non a caso in un’apposita sezione della mostra la sua produzione viene messa a confronto con quella di altri pionieri come Hermann Junger dell'Accademia di Belle Arti di Monaco, Manuel Capdevila della Scuola Massana di Barcellona, Max Frölich di Zurigo, Klaus Ullric della Kunst Werkschule di Pforzheim e Yasuki Hiramatsu, docente per trent'anni all'Università delle Arti di Tokio. Viene poi ricostruito il clima culturale della Padova negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, e dopo un’incursione nella produzione scultorea e sacra chiudono infine la mostra le opere di due fra i più prestigiosi allievi del Pinton, Francesco Pavan e Graziano Visintin. In totale il percorso si compone di oltre cento opere tra monili, sculture, disegni, bozzetti e scritti teorici; sono inoltre presenti le splendide immagini di Francesco Pinton, figlio dell’artista e fotografo.
La mostra, pensata nell’ambito delle celebrazioni per il centenario dalla nascita del maestro padovano, viene finalmente proposta al pubblico dopo diversi rinvii e costituisce un’occasione per tornare finalmente a vivere gli spazi artistici e museali dopo – si spera – la fase più acuta della pandemia. Anche per questo è stata appena inaugurata presso l’Arena romana, attigua al Museo, l’installazione Fons Vitae dell’artista Antonio Ievolella. Motivo ispiratore dell’allestimento è l’acqua, che percorre a ciclo continuo 30 otri di terracotta disposti in sospensione su strutture di ferro: simbolo di un bene prezioso da proteggere, come indicano gli scudi posti dall’autore come presidio e difesa, uno dei quali reinterpreta la “stele di Ostiala Gallenia” conservata nell’adiacente Museo Archeologico.