Proteste a Beirut. Foto di Jessica Wahab
C’è un Paese che sta crollando mentre il mondo sembra pensare solo alla pandemia. Non si ferma la discesa del Libano, una volta considerato all’avanguardia nel Medio Oriente e oggi alle prese con la crisi più grave dalla fine della guerra civile nel 1990, tanto che l'alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet ha dichiarato che la situazione “sta rapidamente sfuggendo al controllo”.
Tutto è iniziato lo scorso 17 ottobre con le imponenti manifestazioni di piazza che hanno portato alle dimissioni del governo Hariri. La protesta era contro la classe politica che ha condotto il Paese dei cedri alla bancarotta, in un sistema basato sulla corruzione e il clientelismo; le cose però vanno addirittura peggio con il nuovo esecutivo guidato da Hassan Diab, appoggiato soprattutto da Hezbollah (il “partito di Dio” sciita): negli ultimi mesi la lira libanese ha perso oltre l’80% del suo valore, gettando sul lastrico gran parte della popolazione.
“Per molti anni il cambio è stato fissato a 1.500 lire libanesi contro un dollaro: oggi ce ne vogliono almeno 9.200 – spiega a Il Bo Live Camille Eid, giornalista e scrittore libanese da oltre 30 anni in Italia, dove collabora con il quotidiano Avvenire –. Un’intera classe media, che una volta rappresentava l’ossatura dell’economia e della società, non esiste letteralmente più. La metà della popolazione vive sotto la soglia della povertà e la percentuale cresce di settimana in settimana”.
Intervista di Daniele Mont D'Arpizio, montaggio di Elisa Speronello
Il disastro affonda le radici nella stessa storia del Paese arabo, più piccolo dell’Abruzzo ma perennemente diviso in una miriade di religioni e fazioni: sunniti, sciiti, drusi e la comunità cristiana più numerosa in rapporto alla popolazione di tutto il Medio Oriente, a sua volta divisa in diverse confessioni. Una situazione che soprattutto dopo la guerra civile ha portato a una rigida ripartizione delle cariche pubbliche in base all’appartenenza etnico-religiosa. “Oggi il sistema confessionale fa parte dei mali del Libano, ma all’inizio aveva un significato positivo – continua il giornalista –. L’intento era di applicare un trattamento paritario a tutti i cittadini, mentre nei Paesi vicini il potere era storicamente collegato al predominio di un determinato gruppo etnico (come i sunniti in Iraq o gli alawiti in Siria)”.
Così la presidenza del Repubblica è ad esempio monopolio della comunità cattolica maronita, mentre la guida del governo è prerogativa di quella sunnita; la rigida ripartizione tra religioni e fazioni vale però praticamente per tutte le cariche pubbliche di qualche importanza: dal governatore della banca centrale ai dirigenti dei ministeri. “Doveva trattarsi di una misura provvisoria, in vista un sistema laico che purtroppo non ha visto la luce. Il problema cruciale è però che negli ultimi 30 anni il Libano è stato governato dagli ex signori della guerra: gli stessi capi delle milizie che hanno distrutto il Paese avrebbero dovuto guidarne la ricostruzione. Che è stata condotta indebitandosi fino all’inverosimile, senza creare e infrastrutture investimenti ma dilapidando gran parte delle risorse in un sistema corruttivo al quale tutti hanno preso parte”.
La crisi internazionale e la guerra in Siria (in Libano ci sono attualmente quasi due milioni di rifugiati su una popolazione di appena quattro milioni e mezzo di abitanti) hanno fatto il resto, così lo scorso marzo è stato dichiarato ufficialmente il default: con un debito su pil oltre il 150% non era più possibile nemmeno pagare gli interessi. E l’insolvenza non ha tardato a trasmettersi al settore privato: “All’improvviso i libanesi hanno scoperto che per anni i loro risparmi erano stati utilizzati per conservare il tasso fisso con il dollaro – spiega Eid –. Il tutto gestito dal governatore della banca centrale con la complicità delle altre banche, che tra parentesi sono di proprietà dei politici. In seguito i conti in dollari sono stati bloccati e poi convertiti in lire libanesi, ma a un cambio ufficiale molto più basso di quello effettivo”.
“ Il Libano, diceva papa Giovani Paolo II, è più che un Paese: è un messaggio di convivenza tra diverse religioni e confessioni
Oggi il disastro da economico sta diventando umanitario: “Proprio in questi giorni il governo ha introdotto un ‘pacchetto alimentare’ per bloccare il prezzo, che comunque era già raddoppiato, di circa 300 prodotti essenziali. Per farlo verranno spese le ultime riserve in valuta straniera, circa 17 miliardi. Poi non so come andrà, ci chiediamo come farà lo Stato a pagare gli stipendi pubblici”. Una situazione rischia di mettere in pericolo i fragili equilibri interni: “La gente non vorrebbe un’altra guerra civile ma il rischio c’è, chi vuole conservare il potere è pronto a usare tutte le carte. Diverse volte negli ultimi mesi i miliziani di Hezbollah e del partito sciita Amar sono andati nei quartieri cristiani e sunniti per provocare la reazione violenta degli abitanti. La speranza è che i libanesi non si prestino al gioco, ma è chiaro che questi alla fine dovranno pur prendersela con qualcuno se il governo continua ad arrestare gli attivisti e a martellare la popolazione”.
Anche il quadro internazionale è complicato, tra una Siria perennemente focolaio di instabilità (e dal 18 giugno soggetta a un nuovo embargo americano, il cosiddetto Ceasar Act, che ne strangola l’economia), e vicini ingombranti come Israele e Turchia. “Il percorso per uscire dalla crisi potrebbe essere ancora lungo, ma intanto il popolo soffre la fame. Presto rischiamo di non avere più luce persino negli ospedali”. C’è una via di uscita? “Per la prima volta non vedo un barlume di luce – commenta amaro Camille Eid –: nemmeno durante gli anni bui della guerra ci siamo ritrovati in una situazione del genere. Allora c’era più solidarietà internazionale, alimentata dagli amici del nostro popolo e dalla diaspora; c’erano gli emigrati che mandavano rimesse alle famiglie. Oggi chi è disposto ad aiutare un governo considerato espressione di Hezbollah? Cercheranno di lasciarlo morire, e con esso il Paese. Mi rendo poi conto che la soluzione non è nemmeno far tornare al potere quelli di prima: l’unica speranza è un cambio radicale di tutta la classe politica”.
Proprio il 1° settembre 1920 i francesi, in quanto potenza mandataria, proclamarono il ‘grande Libano’ con i confini di quello che nel 1943 sarebbe divenuto uno Stato indipendente. “A cento anni della sua fondazione il Paese sembra destinato alla scomparsa – conclude il giornalista –. E la cosa che spiace di più è che il Libano, come diceva papa Giovani Paolo II, è più che un Paese: è un messaggio di convivenza tra diverse religioni e confessioni. Una vocazione che il mondo rischia di perdere proprio in un momento in cui ce ne sarebbe particolarmente bisogno”.