SCIENZA E RICERCA

Plastica: dal riciclo chimico ai nuovi polimeri

“Al mondo vengono prodotte circa 400 milioni di tonnellate di materie plastiche, in Europa circa 60 milioni o poco meno, e di queste circa il 40% finisce nel settore degli imballaggi. Se nell’edilizia le plastiche hanno un ciclo di vita (dalla produzione allo smaltimento) anche di 50 anni e nell’automotive dai 10 ai 20 anni, le plastiche degli imballaggi hanno un tempo di vita breve, di giorni o mesi: il materiale viene prodotto e diventa rifiuto nel giro di poco tempo e questo sta creando problemi ambientali. A livello europeo viene riciclato circa il 35% di tutte le plastiche, il 25% va in discarica, il 45% finisce nei termovalorizzatori (che bruciano il materiale di scarto per generare energia elettrica). In Italia in particolare circa un terzo delle plastiche viene riciclato per via fisico-meccanica, un terzo viene sottoposto a termovalorizzazione, un terzo finisce in discarica. Questa ovviamente è la media italiana, ma la situazione è molto diversa da regione a regione”. È questo il quadro tracciato da Michele Modesti, professore di ingegneria chimica, che pone in evidenza come le materie plastiche, pur rimanendo tra i materiali più utilizzati, siano anche tra i meno riciclati e a più elevata dispersione e persistenza negli ambienti acquatici e marini. Con il docente abbiamo cercato di capire per quali ragioni il tasso di riciclo oggi sia ancora relativamente basso e quali siano le possibili soluzioni. 

Perché si ricicla ancora poco?

Perché esistono una serie di impedimenti al riciclo fisico-meccanico. Uno dei problemi degli imballaggi, nel caso specifico, sono i diversi materiali che compongono i film multistrato che sono impossibili da separare. Basti pensare al food packaging: i contenitori per alimenti necessitano di effetti barriera contro l’ossigeno, la luce, i gas e dunque di pellicole addirittura a cinque, sei strati. Anche qualora venissero riciclati per via fisico-meccanica, questi materiali non avrebbero proprietà tali da essere riutilizzati. Per questo molti vengono trasformati in combustibili, dato l’elevato potere calorifico, e vengono impiegati per esempio al posto del carbone nei cementifici. A fronte di questa situazione numerosi produttori di materie prime stanno cercando di creare film multistrato monomateriale, composti dunque da un solo polimero o da polimeri molto simili specie per gli imballaggi alimentari, così da rendere più facile un successivo riciclo. I polimeri, lo ricordiamo, sono macromolecole formate da una sequenza di migliaia di unità dette monomeri che caratterizzano le diverse materie plastiche. Possiamo immaginare un polimero come un lungo treno i cui vagoni sono i monomeri.

Non si riuscirà mai ad arrivare a una completa circolarità solo per via fisico-meccanica, perché sussistono problemi di diversa natura: per esempio, la difficoltà nella separazione dei materiali dopo la raccolta differenziata (operazione propedeutica al riciclo), oppure la contaminazione dei materiali con sostanze pericolose. In ogni caso, inoltre, il materiale di riciclo deve dimostrare di avere un suo mercato, tenendo conto del costo o delle basse caratteristiche.

Per questo si sta lavorando dunque in più direzioni: si sta cercando innanzitutto di ridurre i consumi e puntare sul riutilizzo, di sostituire tutti quei materiali che possono essere sostituiti (ad esempio prodotti monouso con polimeri compostabili), ma anche di affiancare al riciclo fisico-meccanico quello chimico che sta via via prendendo piede. 

Cos’è il riciclo chimico?

Per riciclo chimico si intende la degradazione per via termica o chimica  delle lunghe catene  polimeriche di cui sono composti i rifiuti in plastica. Interessa soprattutto le poliolefine degli imballaggi, o più in generale le plastiche miste difficilmente separabili e quindi non riciclabili per via fisico-meccanica. La principale tecnologia di riciclo chimico è la pirolisi che avviene in reattori alla temperatura di circa 400 gradi centigradi: questo processo permette di rompere le lunghe catene polimeriche della plastica trasformandole in un prodotto liquido chiamato “olio di pirolisi”. Alle temperature di 700-800 gradi centigradi si possono ottenere prevalentemente gas di pirolisi usati per produrre energia. L’olio di pirolisi ha tuttavia molto più valore: viene purificato e rinviato ai forni di cracking in sostituzione di idrocarburi fossili per produrre principalmente etilene e propilene, dunque i “monomeri” che servono per produrre nuovamente polimeri. Va detto, però, che il riciclo chimico ha un maggior impatto ambientale (in termini per esempio di emissioni di CO2) rispetto al riciclo fisico-meccanico, ma inferiore invece alla termovalorizzazione.

Ci sono aziende che stanno investendo sul riciclo chimico? 

Ci sono molte multinazionali che stanno investendo milioni di euro in particolare sulla pirolisi. Affiancando infatti il riciclo chimico a quello fisico-meccanico si potrà arrivare ad un buon livello di circolarità: entro il 2050 si stima che circa l’80% delle materie plastiche, una volta conclusa la loro funzione, possano essere reimmessi sul mercato, estendendo così il loro ciclo di vita e riducendo al minimo i rifiuti che finiranno in discarica o alla termovalorizzazione.

Le bioplastiche potrebbero essere una valida alternativa?

Le bioplastiche (realizzate a partire da materie prime rinnovabili e non da derivati del petrolio, ndr) oggi costituiscono l’1-1,5% del mercato globale, siamo dunque a livelli ancora molto bassi di produzione. In certi settori dell'alimentare possono offrire un valido contributo, purché si tratti però di materiali compostabili, conferibili cioè nei rifiuti organici: il fatto che siano biodegradabili ma non compostabili non significa molto, se non si conoscono i tempi e le condizioni in cui lo sono. Le bioplastiche hanno già un loro impiego, vengono usate per esempio per i sacchetti dei rifiuti organici  o per certi tipi di contenitori per alimenti.

Per risolvere gli attuali problemi di riciclo alcuni ricercatori, in un articolo pubblicato su Science dal titolo Chemically recyclable polyolefin-like multiblock polymers, propongono la realizzazione di un nuovo tipo di plastica composto da due soli elementi. Ci spiega di che cosa si tratta e se può essere una strada percorribile?

Per risolvere i problemi del riciclo dei multimateriali i ricercatori in questione propongono di produrre dei polimeri a blocchi a base di poliolefine che andrebbero in sostituzione al polietilene a bassa densità (LDPE) e al polietilene lineare a bassa densità (LLDPE), unendo blocchi di polimeri rigidi semicristallini a blocchi flessibili amorfi. Combinando opportunamente questi blocchi, si riuscirebbe a ottenere tutta una serie di materiali che alla fine del ciclo di vita si potrebbero nuovamente separare in blocchi rigidi e flessibili, purificare e riusare per produrre nuovamente polimeri. 

Sebbene l’idea sia buona, è di difficile realizzazione al momento: il trasferimento industriale di questo processo sarebbe difficilissimo da tradurre in pratica e antieconomico, perché bisognerebbe lavorare a pressioni elevate di idrogeno, con tempi di reazione di 36 ore (non proponibili a livello industriale), ma soprattutto sarebbe necessario utilizzare catalizzatori a base di complessi del rutenio, che è una terra rara molto costosa. Inoltre, come ammettono gli stessi ricercatori, tracce di questo catalizzatore rimarrebbero all'interno dei blocchi anche durante la purificazione e dunque non sarebbe possibile usarli per il settore biomedicale e alimentare, che è il settore principale in cui viene usato il polietilene.

Inoltre i materiali ottenuti in questo modo andrebbero a sostituire una ristretta gamma di polimeri, e cioè il polietilene utilizzato per i film che rappresenta solo una porzione sul totale delle materie plastiche (il 15% circa).

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