L'articolo scritto dal giornalista canadese Nicola Jones e apparso su Nature nell'aprile scorso, parla chiaro: l'oceano è un luogo pieno di rumori (non siamo di fronte a lI mondo silenzioso di cui scriveva Jacques Cousteau negli anni Cinquanta del secolo scorso), ma ad alzare notevolmente il volume ci sta pensando l'uomo con le sue numerose attività. Motori navali, esplosioni subacquee, sonar e trivellazioni petrolifere: non c'è pace. "Suoni forti e improvvisi possono causare danni fisici - si legge su Nature - il rumore di fondo persistente, come quello della navigazione, può alterare sistemi e comportamenti, dalla comunicazione all’alimentazione". Per ridurre l'impatto ed evitare futuri disastri, ricercatori e organizzazioni internazionali stanno lavorando a una serie di progetti di salvaguardia della vita marina, cercando soluzioni concrete. Abbiamo cercato di approndire la questione, ponendo alcune domande a Carlotta Mazzoldi, biologa marina dell'università di Padova e responsabile del Museo di zoologia adriatica Giuseppe Olivi di Chioggia.
L'oceano è un luogo rumoroso, ma l'uomo è andato ad aumentare il frastuono, intensificando l’inquinamento acustico. Quali attività umane danneggiano maggiormente la vita oceanica oggi? E quali sono le principali "vittime" del rumore?
Il mare è un luogo pieno di suoni, sia dovuti ai movimenti dell’acqua, per esempio nelle zone costiere, sia legati alle “attività sonore” degli animali che vi abitano. L’inquinamento acustico dei mari e degli oceani è legato a diverse attività. Le più note sono senz’altro quelle legate alle esplorazioni per il rilevamento di depositi di idrocarburi, i sonar militari, lo sviluppo edilizio costiero durante la costruzione di fondamenta e l’infissione di pali, dragaggi, ed infine il traffico marittimo di diverso tipo, dai mercantili, alle navi da crociera, dai traghetti ai pescherecci (le cui attività di pesca possono anch’esse contribuire al rumore), sino alle imbarcazioni da diporto. Se pensiamo al nostro Mare Mediterraneo, bisogna considerare che pur essendo piccolo ospita circa un terzo del traffico mondiale marittimo di merci. Le vittime del “rumore” più note al grande pubblico sono senz’altro i cetacei, delfini e balene. Ci sono però molti altri animali marini che possono risentire del rumore, per esempio pesci e tartarughe marine. Gli effetti poi possono essere diversi, da lesioni all’apparato acustico all’alterazione del comportamento. Bisogna infatti ricordare che non solo i cetacei utilizzano i suoni per comunicare, navigare e persino trovare le loro prede, ma anche molti altri animali marini producono suoni per attrarre i compagni e comunicare, orientarsi, distrarre i predatori o utilizzano i suoni come segnali di allarme. Inoltre molti studi hanno rivelato come le larve dei pesci utilizzino anche i suoni per orientarsi verso le aree dove andranno a stanziarsi.
How badly is humanity’s growing acoustic footprint damaging ocean life? https://t.co/SEBpYznMuY
— nature (@nature) 10 aprile 2019
Cosa si può fare per arginare i danni? Quali soluzioni si possono adottare per mitigare il rischio e per prevenire?
Da diversi anni molti gruppi di ricerca stanno focalizzando il loro lavoro su questo tema innanzitutto per comprendere l’effettivo impatto a breve e lungo termine sugli animali marini. Grazie a queste ricerche oggi siamo in grado di far emergere il problema e quindi sollecitare la riduzione del “rumore” prodotto dalle attività umane. Il problema dell’impatto del rumore nell’ambiente marino è oggi sempre più riconosciuto a livello internazionale, tanto che nel 2008 la Comunità Europea ha emanato una direttiva quadro sulla Strategia Marina nella quale il rumore viene indicato come uno dei parametri di qualità dell’ambiente marino. Grazie a questo, è ora necessario introdurre la valutazione del rumore prodotto quando vengono avviate le valutazioni di impatto di opere a mare. C’è inoltre una spinta alla riduzione del rumore prodotto dalle navi, portata avanti anche dall’Organizzazione marittima internazionale, attraverso una progettazione attenta delle eliche. C’è poi la possibilità di limitare le attività più rumorose nelle aree e/o nei periodi nei quali si sa che questo rumore potrebbe avere un maggiore impatto (per esempio, in aree dove sono più abbondanti specie protette e sensibili al rumore quali i cetacei). Le aree marine protette, con la riduzione delle attività dell’uomo al loro interno, possono funzionare come “oasi” nelle quali il paesaggio sonoro è più naturale e, grazie alla maggiore presenza di specie in queste aree protette, anche più ricco.
In questo senso, partendo dalla condizione di stress a cui è sottoposto l'ecosistema oceanico, quanto pesa l'ulteriore minaccia del cambiamento climatico? Come si lega, se si può legare, al problema dell'inquinamento acustico?
In generale, le varie fonti di stress possono interagire fra di loro portando ad un impatto anche più consistente sugli organismi marini. Per quanto riguarda il “rumore” si sa, per esempio, che l’acidificazione degli oceani, uno dei cambiamenti in atto nei nostri mari, porta ad una riduzione dell’assorbimento dei suoni e, di conseguenza, ad un’amplificazione del rumore.