Una delle installazioni all'interno della mostra: "Spirit and Opportunity" di Roman Ondak. Foto: Silvia Bencivelli
“Questa volta recensisco una mostra”: l’intenzione era lodevole, ma la recensora ha trascurato un dettaglio. Che la principale differenza tra un libro e una mostra è che il libro lo puoi leggere a casa, mentre per vedere una mostra devi uscire.
E dove la metti la bambina? Te la porti dietro. E come la vedi la mostra? Di corsa.
A questo punto la recensora ha deciso in maniera del tutto personale che il primo criterio per promuovere una mostra è se sia riuscita a interessare il visitatore anche mentre corre dietro a una bambina di due anni.
La mostra che stiamo andando a raccontarvi l’ha incontrato in pieno.
La mostra, intanto, è ospitata nel bellissimo Palazzo delle Esposizioni di Roma ed è divisa in tre parti, due delle quali occupano il piano terra (quello della biglietteria) e la terza delle quali è al piano superiore. Le tre parti (le tre “stazioni”) vogliono essere tre letture del tema Arte e Scienza, declinato dal punto di vista storico, artistico e scientifico.
Parentesi: perché “stazioni”? Trattasi di termine coniato (per la scienza) nella seconda metà dell’Ottocento per indicare posti in cui ci si incontra, si sperimenta, si dialoga. La prima fu quella di Anton Dohrn, fondata a Napoli negli anni settanta dell’Ottocento. Oggi però la stazione di ricerca è anche quella in Antartide o quella Spaziale internazionale: un avamposto dell’uomo in un territorio di prossima esplorazione. Ma il richiamo vuole essere anche quello alle nostre “stazioni” quotidiane da pandemia: le postazioni al computer sulla scrivania di casa, da cui abbiamo interagito con il mondo senza toglierci tuta e ciabatte. E da cui la recensora si fa un pregio di scrivere anche questa.
La mostra. Le tre stazioni sono molto diverse tra loro, per aspetti espositivi, interattività, allestimento, temi. Ma si sposano molto bene tra loro ed è piacevole passare dall’una all’altra seguendo i fili di un unico intreccio, quello tra arte e scienza. Analogamente i cataloghi, separati, delle tre stazioni, hanno un’identica grafica e impaginazione, ma diversi colori di copertina e risultano molto eleganti nell’insieme.
Il punto di vista artistico (trenta artisti, sette sezioni, un titolo che è un colpo di genio: “Ti con zero”) è la prima stazione che si incontra, al piano terra, e comprende opere davvero stupefacenti e a uno sguardo meno frettoloso anche molto interessanti. Alla bambina di due anni è piaciuto molto camminare su Marte all’interno di un’installazione assai realistica, e guardare vasche illuminate di luce colorata. La madre ha trovato curiose anche le opere di ispirazione matematica fatte di dadi o numeri o bastoncini, così come l’installazione che rappresenta un corpo macchina composto da strumentazioni di ingegneria biomedica e quelle sulla “comunicazione molecolare” che crea forme e colori fantastici.
La stazione più scientifica, dedicata al tema oggi cruciale dell’incertezza, è forse la più sacrificata, trovandosi in stanze meno monumentali. O forse semplicemente è quella che richiede più attenzione e concentrazione, e non stupisce visto che è quella progettata dall’Infn per parlare al pubblico di come la scienza, in molte sue articolazioni, dà un senso all’incertezza (a parte una vaschetta di Lego, in realtà un serissimo exhibit per simulare lo sviluppo di una città, si consideri che questa è la parte che con una bambina di due anni è più faticosa). Fanno parte di questa terza stazione della mostra alcuni exhibit spettacolari che la recensora ha segnato tra le cose da rivedere al più presto, come un simulatore dell’andamento della pandemia che permette di tenere conto di più parametri e che proietta su parete e soffitto di una grande stanza tutta la complessità della situazione umana attuale. Notevoli anche i saggi che parlano di incertezza nel catalogo (e in parte anche nei testi di accompagnamento alla mostra), tra cui uno del neo-Nobel Giorgio Parisi.
Il punto di vista storico è al piano superiore e racconta la scienza che si fa e si è fatta a Roma, ed è la parte più scorrevole e narrativa, quella che colpisce di più il visitatore, anche non romano, per l’idea che c’è dietro. All’indomani dell’unità d’Italia, scopriamo all’ingresso, l’allora Ministro dell’Educazione e delle Finanze, nonché uomo di scienza, Quintino Sella, decide che Roma dovrà diventare la capitale della scienza italiana. Roma è già, ovviamente, un centro culturale importante, e ha enormi risorse storiche, archeologiche, universitarie... Ma adesso si tratta di orientare il progresso del paese e di farlo in un posto dove possa avvenire, diceva Sella, “il cozzo delle idee”. È così che fioriscono fisica, astronomia, sanità pubblica, antropologia… E tra istituti di ricerca, università, osservatori e laboratori, a Roma si accumula un patrimonio incredibile di oggetti, collezioni preziosissime e uniche.
Eppure a Roma non c’è un museo della scienza.
La stazione cerca di essere un primo risarcimento a questa mancanza, soprattutto per una delle funzioni che il museo svolge, e che qui è sottotraccia in tutta la mostra: quella di favorire un ideale dialogo tra comunità scientifica e pubblici, e all’interno della comunità scientifica un dialogo tra quelle che (per comodità, ormai, forse) consideriamo discipline diverse. Passeggiando nelle sale di questa stazione si può vedere parte dell’incredibile patrimonio custodito, qua e là, dalla città: dai crani dei Neandertal italiani alle lettere di Einstein ai matematici italiani, dagli strumenti scientifici della scuola malariologica italiana che fu la più importante del mondo alle testimonianze della scuola di fisica di Via Panisperna. Fino ai razzi Scout e il satellite San Marco, di quando eravamo una potenza spaziale, in un giocoso pendant con i manoscritti di Galileo.
Si esce dalla mostra dicendosi che, beh, un sacco di quelle cose magari le sapevamo già. Ma le avevamo in mente sparpagliate e soprattutto immateriali, e vedere lì gli oggetti tangibili che sono stati prodotti e produttori di tanta intelligenza scientifica, beh, fa effetto. Soprattutto si capisce perché si senta spesso dire, con un po’ di retorica, che per costruirsi un futuro solido bisogna conoscere le proprie radici.
(Dopodiché si porta la bambina al piano di sotto, dove una sala “montessoriana” le permetterà di sfogarsi per i successivi 45’. E ci si ripropone di tornare un giorno in cui l’asilo nido è aperto).