SOCIETÀ

In Ucraina è in gioco la nostra libertà

Per anni abbiamo pensato di diffondere la democrazia attraverso la pace, mentre oggi il discorso va rovesciato: le ultime vicende a livello internazionale dimostrano che si può raggiungere la pace solamente proteggendo la democrazia. Potremmo sintetizzare così il messaggio de Il posto della guerra. Il costo della libertà, l’ultimo libro di Vittorio Emanuele Parsi appena pubblicato da Bompiani. Un testo ricco di passione civile, ma anche di riflessioni e di spunti su come è cambiato il mondo dopo l’aggressione russa all’Ucraina del 24 febbraio.

Da oltre 70 anni, perlomeno a partire dalla dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, si è pensato che forti relazioni economiche e commerciali avrebbero trasformato le nazioni da rivali a partner, rendendo di fatto la guerra "non solo impensabile, ma materialmente impossibile". Un principio che è alla base del processo di costruzione europea e in seguito del fenomeno che chiamiamo globalizzazione, ma che proprio con il conflitto ucraino (ma non solo) mostra oggi tutta la sua inadeguatezza. “La storia del secondo dopoguerra ci dice che la pace passa attraverso la diffusione e della democrazia e non viceversa – spiega Parsi, docente di relazioni internazionali e di studi strategici all’Università Cattolica di Milano, nell’intervista a Il Bo Live –. C’è inoltre un legame forte tra il radicamento e la diffusione della democrazia in occidente e la costruzione di istituzioni internazionali che si basano sugli stessi principi e le stesse regole”.

Intervista di Daniele Mont D'Arpizio, montaggio di Barbara Paknazar

La visione funzionalista, così come codificata dalla geniale intuizione di Jean Monnet, basa il suo successo sul presupposto implicito che i Paesi coinvolti siano democrazie liberali, con istituzioni almeno in linea di massima trasparenti e democraticamente ‘scalabili’. Quando un regime non si sente tenuto al rispetto della verità e dello stato di diritto il gioco invece non funziona. Non ha funzionato con la Cina, come vediamo nelle vicende di Hong Kong e nel conflitto strisciante con Taiwan, ed è fallito miseramente con Putin, il cui regime ha approfittato per anni dei ricchi dividendi incassati dalla vendita del gas naturale all’Europa per rafforzarsi e diventare sempre più oppressivo all’interno e aggressivo all’esterno.

Da anni il regime russo manda segni di insoddisfazione espliciti, attaccando i suoi vicini, dipingendo gli ordinamenti liberaldemocratici come deboli e corrotti e prefigurando la caduta dell’ordine mondiale uscito dalla fine della guerra fredda. Se però Putin continua a lamentare che il crollo dell’Urss sia stato una “catastrofe geopolitica”, nella realtà dei fatti – secondo l’analisi di Parsi – quella che sta vivendo la Russia è una vera e propria crisi da decolonizzazione. Così come coloniale è l’approccio russo verso l’Ucraina e la natura del conflitto condotto sul suo territorio, con tutto ciò che ne deriva in termini di ferocia e di efferatezza.

La storia del secondo dopoguerra ci dice che la pace passa attraverso la diffusione e della democrazia e non viceversa

Una crisi già attraversata dai Paesi europei democratici e che è stata determinante per la nascita dell’Ue, che però in una situazione come quella russa non trova una sua valvola di sfogo nel dibattito e nel confronto pubblico e mette necessariamente in gioco la sopravvivenza del regime. Non è dunque il caso di illudersi: Putin non può permettersi di mollare la presa in Ucraina e l’Occidente – in particolare l’Europa – non può a sua volta acconsentire a questa sua drammatica destabilizzazione da parte di chi vuole dividerlo e sottometterlo. Per questo gli europei sono già ora chiamati a interrogarsi sul loro futuro e sul ruolo che vogliono assumere.

Una delle conseguenze più nefaste dell’aggressione all’Ucraina è il ritorno della guerra in Europa, in una dimensione e con potenzialità ancora superiori rispetto all’ex Jugoslavia. Un dato che ormai è entrato nella storia e come tale non può essere ignorato. Allo stesso tempo la Russia ha mostrato di non esitare a usare tutti i mezzi a sua disposizione per perseguire i suoi sogni imperiali di potenza: dal ricatto energetico fino alla minaccia nucleare. I Paesi liberi devono semplicemente scegliere se lottare per difendere i loro valori e la loro libertà oppure girarsi dall’altra parte, almeno fino a quando non saranno coinvolti direttamente. Una scelta strategica difficile forte per un’Europa che, dopo secoli di guerre, si era illusa che pace e benessere fossero a costo zero.

Il problema è scegliere se lottare per restare liberi oppure sopravvivere da servi: una questione che del resto si era già posta anche durante la guerra fredda – conclude Parsi –. Ricordando che a livello individuale è possibile anche scegliere la servitù per restare vivi, mentre i popoli come entità politica non hanno questa possibilità. Senza libertà gli Stati, le comunità e i popoli non esistono, diventano appendici  di comunità politiche altrui. Che oggi nella Repubblica Italiana, che giustamente si dice nata dalla Resistenza, ci si chieda se resistere abbia un senso è secondo me il segno di un degrado etico e culturale prima ancora che politico”.

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