CULTURA
In guerra senza una guerra: pandemia e narrazioni guerriere. Dialogo con Nicolas Beaupré ed Emmanuel Debruyne (prima parte)
Fin dall’inizio della crisi da Covid 19, governi nazionali e media hanno fatto insistentemente ricorso a un linguaggio di guerra. In Italia e in Francia la Grande Guerra è stata privilegiata come termine di riferimento ideale. Di fronte alla minaccia della pandemia, la comunità nazionale è stata esortata a stringersi compatta (l’union sacrée del ’14, che Macron ha esplicitamente citato nei suoi discorsi televisivi ai francesi) e a rispondere con orgoglio e determinazione. Come i nonni (o bisnonni, ormai) sulla Marna e sul Piave, appunto.
Nel Regno Unito a essere evocata è stata l’“ora più buia” del 1940, a cui ha alluso anche la regina, incitando i suoi sudditi a ricordare il tradizionale coraggio sempre mostrato nei momenti difficili. Negli Stati Uniti il Surgeon General Jerome Adams, un ammiraglio non proprio incline alle boutades tipiche della retorica trumpiana, ha parlato di un “Pearl Harbor moment” (oltre che di un nuovo 11 settembre) per tentare di spiegare agli americani (e al suo presidente) la gravità della situazione. Persino un personaggio poco incline alle metafore roboanti come Mario Draghi, nella sua intervista del 25 marzo al Financial Times, ha apertamente menzionato il primo conflitto mondiale, e il doloroso dopoguerra, per delineare gli scenari possibili e gli errori da evitare: “We face a war against coronavirus and must mobilise accordingly”.
Dal punto di vista dei vertici politici, il fine di questa chiamata (metaforica) alle armi sembra evidente. Attraverso le emozioni legate alle pagine più intense dell’identità nazionale, si è voluto mobilitare il consenso spontaneo dei cittadini, o quantomeno di una loro ampia maggioranza, per rendere accettabili misure di limitazione alle libertà personali tanto drastiche, prolungate ed estese a ogni ambito della vita quotidiana, da non avere paragoni dal 1945 a oggi. Una strategia di successo. L’eco mediatica e la favorevole ricezione popolare di queste parole d’ordine sono un fatto innegabile (come già detto in un precedente intervento sul tema).
La paura e il lutto
Certo, di fronte all’utilizzo ripetuto di tante analogie guerresche, non di rado superficiali e spesso a sproposito, qualche perplessità è legittima. In un provocatorio intervento dal titolo Covid 19: When History Has No Lessons, Guillaume Lachenal e Gaëtan Thomas, storici della scienza presso il prestigioso Sciences Po di Parigi, hanno esortato a non cadere nelle comparazioni troppo scontate: “[…] recollection is not a virtue in itself. Analyses based on precedents prove problematic, as they might orient actors towards outdated strategies”. Il rischio dei parallelismi superficiali, sostengono Lachenal e Thomas, è quello di fare la fine dei generali francesi del 1940 immortalati da Marc Bloch ne La strana disfatta: sedotti dal passato, inchiodati sulla Linea Maginot attendendo di combattere una guerra del tutto nuova seguendo l’esempio e le dottrine di quella vecchia.
Il paragone è grossolano (mezzo secolo di storiografia ha ampiamente fatto giustizia del “complesso della linea Maginot” e del mito dell’arretratezza dell’armata francese), ma la questione metodologica è reale. E tuttavia, ha notato in un’intervista Stephane Audoin-Rouzeau, uno dei pionieri dello studio culturale delle guerre, lo storico, per quanto irritato dall’abuso di questo codice retorico, non può non essere colpito dalla diffusa sensazione che una rottura antropologica, paragonabile solo a quella dell’estate 1914, sia effettivamente avvenuta, e che il ‘mondo di ieri’, proprio come dopo una grande guerra, sia destinato a non tornare mai più.
Il trauma di una morte che imperversa, onnipresente e imprevedibile come non succedeva dal secondo conflitto mondiale, aiuta a comprendere la facilità con cui si è imposta la percezione condivisa di un cataclisma senza precedenti, destinato a produrre una brutale scansione storica. Anche dopo le catastrofi naturali, l’attentato alle Twin Towers o l’assalto al Bataclan, eventi che hanno scandito la memoria collettiva, il grado di coinvolgimento emotivo non era mai stato così massiccio. L’11 settembre 2001 a New York morirono 3.000 persone, meno delle vittime registrate in 24 ore negli Stati Uniti martedì 14 aprile – per non menzionare il fatto che il numero di cittadini statunitensi morti a causa della pandemia ha già ampiamente superato quello dei caduti accertati della guerra in Vietnam (58.000). Negli assalti terroristici del 13 novembre 2015 a Parigi si sono contate un quarto delle vittime di Coronavirus denunciate quotidianamente nell’ultima settimana dagli ospedali francesi.
Non c’è dubbio che le vite spezzate dalla violenza terroristica abbiano profondamente toccato l’immaginario collettivo, non da ultimo perché si è trattato spesso di donne e uomini nel pieno della giovinezza. Ma le cerchie umane colpite dalla pandemia sono tangibilmente (e tragicamente) più ampie. Parenti, amici, colleghi: i gruppi umani toccati direttamente dal dolore per i defunti; le ‘comunità in lutto’, come le ha definite Jay Winter parlando della memoria del primo conflitto mondiale, si calcolano ormai in milioni di individui. La morte di massa portata dalla pandemia sta generando un sisma psicologico senza paragoni nei decenni precedenti, quando chi non apparteneva alla comunità colpita, chi non viaggiava, chi pensava di potersi isolare nella propria dimensione locale, poteva sempre credere che la catastrofe non lo riguardasse da vicino. “Davanti al dolore degli altri”, come ci suggerisce Susan Sontag (Regarding the Pain of Others, 2003), si può provare repulsione, empatia, addirittura attrazione: raramente però ci si identifica. Oggi, al contrario, il lutto e la paura riguardano chiunque. Ed è nella paura e nel dolore che dobbiamo probabilmente cercare il motivo per cui milioni di europei hanno risposto così favorevolmente all’appello alla guerra, che è stato anche un’invocazione al potere dello Stato di proteggerli.
“Diese Pandemie ist kein Krieg”. Non tutti vanno in guerra contro il virus
Tuttavia, non dovunque la lotta al virus è stata trasformata nella variante della grande guerra patriottica per i millennials. In un inconsueto discorso televisivo per Pasqua Frank-Walter Steinmeier, presidente federale tedesco, ha parlato di una prova severa che richiederà disciplina, pazienza e solidarietà, ma ha anche negato qualsiasi similitudine tra la pandemia e una guerra (“Diese Pandemie ist kein Krieg. Nationen steht nicht gegen Nationen, Soldaten gegen Soldaten”).Le parole di Steinmeier, vecchio socialdemocratico ed europeista, non sono state lontane da quelle della cancelliera Merkel. Che questo succeda per il rispetto di uno stile tradizionalmente misurato e aderente al reale, o per la difficoltà psicologica di rapportarsi in Germania alle sconfitte delle guerre mondiali, è un tema su cui discutere. In ogni caso, è una buona dimostrazione di come il ricorso alla guerra come leva emotiva per legittimare sacrifici e privazioni sembri dipendere in ultima istanza da ragioni, memorie e pregiudizi strettamente nazionali. Ho chiesto a Nicolas Beaupré (maitre de conférences in storia all’università di Clermont-Fermand “Blaise Pascal”, nonché membro del direttivo del Centre de Recherche International dell’Historial de la Grande Guerre di Péronne) e ad Emmanuel Debruyne (professore di storia contemporanea all’Università Cattolica di Lovanio), specialisti di storia della guerra, di condividere le loro riflessioni sul tema, in una sorta di dialogo a distanza che restituisce (anche se molto parzialmente) l’idea di un dibattito in corso nella comunità degli storici europei e di cui pubblichiamo la prima parte, rimandando il resto a un secondo articolo.
Nicolas Beaupré ritiene che il ricorso insistente alle immagini e agli scenari del 1914-18 sia dovuto, al tempo stesso, al radicamento di quell’esperienza nella memoria collettiva, ma anche a fenomeni contingenti, come il forte impatto pubblico del recente centenario e la formazione stessa di Emmanuel Macron. “Ciò che stupisce nel caso francese è come proprio la Grande guerra, e non un altro conflitto, abbia invaso i discorsi politici e mediatici e spinto anche alcuni storici a lanciarsi nelle comparazioni diacroniche, non senza qualche rischio. Certo, ci può essere la tentazione intellettuale di comparare, ad esempio, l’interventismo dello Stato in economia nel 1914-18 con quello attuale. Ma durante la Grande guerra si trattava prima di tutto di mobilitare le risorse e ottimizzare la produzione, mentre oggi il problema è piuttosto quello di far fronte al brutale rallentamento (se non azzeramento) di ampi settori dell’economia”.
“Da un altro punto di vista questo ritorno del 1914-1918 potrebbe sembrare evidente – continua Beaupré –. La pandemia da Covid-19 sta avendo luogo cento anni dopo le grandi ondate della cosiddetta influenza spagnola, che fece probabilmente almeno cinquanta milioni di vittime tra 1918 e 1919. Il legame di questa pandemia con il conflitto mondiale è evidente, poiché il trasporto in Europa di centinaia di migliaia di soldati statunitensi (i Sammies) dai grandi focolai di contagio della costa orientale nell’estate-autunno 1918, così come l’impiego di migliaia di lavoratori asiatici, giocò un ruolo considerevole nella diffusione della malattia. La globalizzazione dovuta alla guerra, con i suoi intensi spostamenti per nave e per ferrovia, così come i giganteschi spostamenti di popolazione che essa generò, ebbero all’epoca per la diffusione pandemica un ruolo simile a quello che oggi hanno giocato la globalizzazione dell’economia e del trasporto aereo. È vero che all’epoca l’influenza colpì popolazioni già largamente provate da quattro anni di conflitto, facendo vittime tanto tra i giovani che tra gli anziani. Giornalisti, epidemiologici e storici, in Francia come altrove, non hanno mancato di esaminare la pandemia attuale paragonandola a quella del passato. E tuttavia – e questo è particolarmente vero in Francia – stranamente i riferimenti all’influenza spagnola sono passati rapidamente in secondo piano rispetto alla narrazione che vuole strettamente legate la lotta alla pandemia e la Prima guerra mondiale”.
“In effetti – secondo Beaupré – nelle scelte retoriche destinate a dare un senso alla prova che stiamo vivendo, la Grande guerra è onnipresente. I discorsi del presidente della Repubblica, in particolare, sono ricchi di anafore marziali, di citazioni da Georges Clemenceau, di appelli all’union sacrée e alla tenacità, che rinviano direttamente a un immaginario storico tanto più presente, e tanto più efficace, vista la vicinanza del centenario, evento che avuto un impatto molto forte nella società francese. Il 1914-18 è stato in qualche modo riattualizzato, è tornato a essere molto più vicino a noi. Ma esistono anche ragioni particolari che vanno richiamate. Molti osservatori hanno osservato come Joseph Zimet, consulente per la comunicazione dell’Eliseo, è stato per cinque anni il direttore generale della struttura creata per le celebrazioni del centenario. Non dimentichiamo infine che Macron, come ama spesso ricordare, è stato un tempo l’assistente di Paul Ricoeur e non può che concordare con lui che, da un lato, la memoria è forse ciò che ci resta di più sacro, e dall’altro che ‘nessuno si impegna a spiegare una serie di eventi senza ricorrere a una esplicita messa in forma letteraria di carattere narrativo, retorico o immaginativo’ (P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio)”.
Emmanuel Debruyne vede invece nell’uso della strategia comunicativa di guerra un riflesso delle tradizionali retoriche pubbliche legate all’identità nazionale, ma anche una manifestazione della diversa organizzazione del potere negli Stati europei. “L’uso della narrazione guerriera è variabile da un Paese all’altro – sostiene lo storico belga, docente all’Università Cattolica di Lovanio – e mi sembra che sia legato al tempo stesso all’attenzione che un governo pone alla crisi ma anche alla presenza più o meno forte del fatto guerriero nella cultura nazionale. La Francia, che fa parte dei Paesi europei più colpiti, dopo l’Italia e la Spagna, ne è un buon esempio, con il discorso di Macron che proclama che il Paese è in guerra contro il virus. Nel vicino Belgio, dove le misure adottate sono state molto simili, questo ricorso alla retorica guerriera è nettamente meno forte”.
Per Debruyne “l’identità nazionale belga, o piuttosto le sue intricate identità nazionali, regionali e linguistiche, si nutrono molto meno di riferimenti ideali ai fatti d’arme, agli eroi marziali e ai condottieri di quanto succeda in Francia. La stessa cultura politica ne è meno impregnata. Certo, in ambedue i Paesi il capo dello Stato è anche il comandante delle forze armate, ma in Belgio questo ruolo è puramente simbolico, poiché i poteri del monarca sono estremamente limitati, mentre il presidente della Repubblica francese incarna effettivamente l’autorità suprema anche nel campo militare. Allo stesso modo, il prestigio dell’esercito è relativo in Belgio, mentre in Francia le forze armate sono percepite come un pilastro della nazione. Queste differenze ci aiutano a capire come mai il capo dell’esecutivo in Francia faccia ricorso molto più facilmente del suo omologo belga a un vocabolario guerriero. Allo stesso modo, non è difficile capire come mai Angela Merkel in Germania non sfrutti, se non con estrema prudenza, lo stesso registro, considerato il rapporto delicato che il suo Paese ha col proprio passato militare”.
Ciò detto, secondo Debruyne, il ricorso alle immagini e alle parole della guerra non è sempre necessario per ottenere il consenso. “Il caso del Belgio ne è una buona dimostrazione. I tradizionali conflitti tra le comunità linguistiche sono placati. Al termine di una crisi di 300 giorni seguita alle elezioni del maggio 2019, durante la quale i partiti si erano dimostrati incapaci di mettersi d’accordo per formare una maggioranza parlamentare, il 17 marzo (primo giorno di lockdown) il governo in carica per gli affari correnti si è semplicemente trasformato in un governo dotato di pieni poteri, con il sostegno di partiti che non sono nemmeno rappresentati al suo interno. Senza ricorrere a nessuna particolare retorica marziale, la crisi del Coronavirus ha dunque generato un ampio consenso politico. Talmente ampio che lo stesso esecutivo è stato poi investito, dal 26 marzo, di ‘poteri speciali’ che gli permettono di prendere delle misure eccezionali in molti settori, per un tempo predefinito ma senza dover ricorrere al parlamento”.