CULTURA

Le origini della virtù. Gli istinti umani e l’evoluzione della cooperazione

La divulgazione scientifica richiede il rigore coniugato con la semplicità e il volume di Matt Ridley, Le origini della virtù. Gli istinti umani e l’evoluzione della cooperazione (IBL Libri, 2012), raggiunge lo scopo. L’autore è infatti capace di distillare gli elementi fondamentali del suo discorso con un uso sapiente degli esempi tratti dalla letteratura specialistica, poiché gli argomenti trattati riguardano modelli scientifici che, all’epoca in cui il testo è stato pubblicato, erano di “nicchia”. Ora, invece, fanno parte di una branca disciplinare emergente: la scienza della natura umana. Si tratta del tentativo di sbrogliare il nodo gordiano dell’indissolubile rapporto esistente tra natura e cultura, passaggio obbligato (e fonte di frustrazione) per generazioni di studiosi del comportamento umano.

I progressi della genetica sono stati recentemente cospicui ed è pensabile che tra non molto saremo in grado di comprendere in che modo, e quanto, i tratti culturali si “iscrivano” nel DNA. I “jumping genes”, per esempio, possono inserire copie di loro stessi in altre porzioni dell’insieme del DNA di un nucleo cellulare, il genoma: in questo modo alterano il funzionamento della cellula, modificandone il comportamento. Si presume che l’inserimento in molte cellule di questi geni inneschi differenze nelle capacità cognitive e nelle caratteristiche della personalità. I geni “salterini” presenti nel genoma umano si sono evoluti all’incirca 2,7 milioni d’anni fa, quando cominciava ad affermarsi l’uso degli utensili di pietra da parte dei nostri antenati. Si avanza quindi l’ipotesi che, a mano a mano che il sistema nervoso apprende e si adatta all’ambiente e nel frattempo questi geni aumentano, i cervelli individuali e le loro reti neurali si modifichino a ogni nuova esperienza. 

Per quanto concerne la cooperazione, il tema centrale del volume, essa è la capacità dei viventi di vivere agendo assieme. L’altruismo rappresenta invece una forma di cooperazione che non offre immediati vantaggi a chi la manifesta. Il comportamento cooperativo tra l’organismo portatore del tratto e quello che ne trae vantaggio (e che dia luogo a benefici reciproci) è detto mutualistico.  Ora, l’animale-uomo è geneticamente predisposto a interagire con i consimili, e le sue tendenze a legarsi e ad affiliarsi con gli altri sono connesse con i nostri sistemi di credenze, mediate dal linguaggio, poiché i nostri sistemi culturali, e la stessa interazione fra esseri umani, si basano sull’uso e il significato del linguaggio.

Purtroppo, però, siamo allo stesso tempo anche soggetti al sentimento di aggressività, al territorialismo, alla competizione per le risorse, all’irritabilità, a conseguire uno status gerarchico di dominanza, a una tendenza all’affiliazione basata sull’organizzazione familiare. Da questa dialettica scaturisce il dilemma della cooperazione: se da un lato i comportamenti di questo tipo possono essere rintracciati fin dagli albori dell’umanità e non solo (e ciò fa presumere che questo tratto sia per noi “fondante”), da un altro canto talune teorie del secolo passato concludevano – paradossalmente – che l’uomo non dovrebbe cooperare o, quantomeno, non come lo fa. È anche possibile che gli ambienti nei quali i meccanismi cerebrali cooperativi si sono formati siano molto diversi da quelli odierni e ciò potrebbe spiegare il carattere enigmatico della cooperazione.

Occorre tener presente, peraltro, che molti aspetti della cooperazione mutualistica e altruistica nell’uomo sono ancora poco chiari, e che gli approcci adottati nell’ultima parte del secolo scorso non tenevano in gran conto i dati provenienti dagli studi sull’evoluzione culturale: in altre parole, sulle modalità stesse con le quali le tradizioni, i riti, le credenze, le organizzazioni sociali e le istituzioni si siano formati nel tempo. Lo stesso autore, pur non appiattendosi su un calco meramente naturalistico, considera appena gli apporti forniti in questo senso (che, all’epoca in cui il volume è stato scritto, scarseggiavano). Adesso biologi e psicologi evoluzionisti tendono a utilizzare i dati provenienti dalle scienze sociali, perché solo in questo modo è possibile superare i limiti del “biologismo” riscontrabile anche nel volume.

La teoria dei giochi è un altro interessante aspetto sul quale si sofferma Ridley. Gli scienziati sociali si sono sempre interessati a ciò che risulta, con modalità non intenzionali, dalle interazioni cooperative tra gli umani, ad esempio le lingue, il diritto e il mercato. Gli economisti, in particolare, hanno cercato d’individuare come le micro-interazioni individuali potessero poi far scaturire i macro-fenomeni sociali che portano ai fatti economici, partendo dal presupposto che lo studio dell’origine e dell’evoluzione di ciò che si è formato spontaneamente possa dar ragione dei fenomeni sociali di più ampio respiro. La teoria dei giochi ha avuto notevoli applicazioni, sia sotto l’aspetto classico (che, in parole povere, suggeriva che ogni giocatore è un egoista interessato alla ricompensa), sia sotto quello evolutivo. Per grandi linee, la declinazione evolutiva suggerisce che le mosse dei partecipanti ai giochi non siano scelte da agenti economici razionali, ma che invece esse siano congenite: forme di comportamento selezionate nel corso dello sviluppo del genere umano.

Partendo dai presupposti della biologia e della psicologia evoluzionistica, dell’etologia e sociobiologia, e dalle acquisizioni della teoria dei giochi, gli ultimi capitoli del volume hanno anche il pregio di fornire consigli di politica economica che, secondo l’autore, sarebbero “in linea” con le nostre tendenze evolutive. Si può essere o no d’accordo sulla visione “anarcoliberista” dell’autore (che propugna un’organizzazione statale ridotta ai minimi termini), ma è comunque apprezzabile lo sforzo di offrire una prospettiva che sia consona alle nostre tendenze evolutive.  Le origini della virtù in ogni caso, secondo l’ottima prefazione di Gustavo Cevolani e Roberto Festa (che ha il pregio di sintetizzare e aggiornare il pensiero dell’autore), rimane un classico della divulgazione scientifica e come tale va considerato e fruito.

Franco Viviani

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