JD Vance, candidato per il partito repubblicano alla vicepresidenza degli Stati Uniti. Foto: Reuters
Chi è davvero J. D. Vance? Il più puro alter ego di Trump, un cinico uomo d’affari e politico che non lesina condanne truculente alle “gattare senza figli” e agli immigrati haitiani che divorano cani e felini, o il fragile, empatico, disarmato narratore di Hillbilly Elegy, il best seller autobiografico che nel 2016 spiegò all’America la rabbia dei bianchi poveri della Rust Belt, la regione nordorientale degli States piagata dal declino dell’industria pesante? Moltissimo è stato scritto su Elegia americana (titolo italiano del libro, edito da Garzanti), il memoriale di enorme successo con cui Vance raccontò la storia della sua famiglia di hillbilly (termine per indicare le popolazioni dell’area dei monti Appalachi), e in particolare dei nonni materni, che alla fine degli anni Quaranta lasciano le alture del Kentucky per Middletown in Ohio, in cerca di risorse per sopravvivere in vista della nascita della loro primogenita, che morirà poco dopo il parto (all’epoca sono entrambi adolescenti).
Elegia americana ripercorre il cammino dell’integrazione dei due hillbilly, microstoria sullo sfondo di un esodo di massa favorito dal fiorire dell’industria metallurgica in Ohio (il nonno diventa operaio specializzato in un’acciaieria e di lì avvia un cammino di successo verso lo status e i modesti agi di piccoloborghese). Un percorso che, se porta a un limitato sollievo economico, trascina con sé le contraddizioni e durezze di una condizione sociale che, secondo Vance, lascia il segno attraverso le generazioni, ed è incarnata dalla figura tragica della madre del protagonista, donna fragile totalmente in balia delle droghe e dell’inarrestabile alternarsi di uomini (che a volte sposa, a volte no) che popolano la casa del bambino J.D. Il quale, attraversando avversità e traumi di ogni tipo, ma aiutato da alcuni parenti di cuore (nonni in primis), riuscirà, primo della sua famiglia, nella scalata a Yale, alla ricchezza e al successo in politica.
Di Elegia americana, come avviene per ogni best seller, si è scritto di tutto: i suoi elogiatori ne lodano la schiettezza con cui dipinge il disagio inestinguibile ed esistenziale di una comunità che diventa simbolo di un largo gruppo sociale, quello della classe operaia bianca povera, di cui le politiche di welfare non sembrano in grado di compensare l’immobilismo culturale ed economico; i detrattori ne sottolineano l’essere un racconto di finzione, un’autobiografia “in fiducia” slegata da qualunque obbligo di rendere conto sulle proprie affermazioni o fonti, e quindi priva di attendibilità per ricostruire le ragioni di un malessere che tanto ha pesato (e pesa tuttora) in termini elettorali sul voto americano.
Ma la lettura del libro di Vance è preziosa, per chi voglia accostarsi senza pregiudizi al mondo della provincia americana, non tanto per il suo valore documentaristico, discutibile quanto si vuole, sulle condizioni di un’ampia comunità marginalizzata dall’evoluzione industriale del Paese. Leggere Elegia americana è utile per comprendere le emozioni, le logiche, il retroterra di fasce di popolazione così ampie, eppure così poco al centro dell’attenzione collettiva.
È complicato capire quanto il senso di estraneità verso candidati percepiti come elitari e privilegiati, parte di un mondo sconosciuto e intangibile, possa essere decisivo nello scardinare fedi politiche di antica data. Vance racconta dell’unico tradimento che il nonno, democratico di ferro, consuma ai danni del partito quando il candidato presidenziale è Walter Mondale, vittima sacrificale nella trionfale rielezione di Reagan del 1984: un politico progressista vissuto come incompatibile con il proprio mondo, distante e antipopolare. Così come per un europeo appare difficile concepire quanto la cultura della violenza, delle armi, del regolamento di conti sia funzionale a un codice d’onore in vigore non solo nei film western di John Ford, ma anche in una comunità urbanizzata e, in qualche misura, assistita e dotata di servizi come quella operaia della Middletown degli anni Ottanta e Novanta.
In Hillbilly Elegy figure centrali sono i nonni materni del protagonista: sono la chiave della salvezza del nipote, l’incarnazione di un amore rude, incrollabile e premuroso che consentirà a Vance di resistere ai disastri combinati dalla madre e al senso di abbandono e disperazione con cui il bambino convive dalla prima infanzia. Entrambi, attenzione, sono figli di una cultura violenta: il loro matrimonio è segnato dalle liti e dall’alcool, il loro insegnamento passa attraverso l’autodifesa intesa come attacco fisico all’avversario, i rapporti umani sono concepiti come lotta per sopravvivere basata sulla diffidenza e sulla reazione sproporzionata all’insidia. In questo quadro, la resistenza del piccolo J.D. a un quadro di degrado umano personale e collettivo (l’abuso generalizzato di oppioidi di cui è vittima anche la madre, la violenza domestica generalizzata, la ghettizzazione nei quartieri proletari, la rassegnazione collettiva alla povertà) assume anche il valore di una presa di consapevolezza progressiva: il suo sforzo non sarà finalizzato solo a liberarsi dei vincoli materiali della comunità d’origine, ma soprattutto dei cascami mentali, l’intreccio malsano di aggressività, spirito rinunciatario, inadeguatezza al cambiamento.
Lo sguardo conservatore di Vance analizza le ragioni dell’immobilità nella scala sociale non tanto come assenza di politiche di welfare, quanto come incapacità di gestirle con oculatezza (i contributi a pioggia favoriscono disoccupazione e inerzia, e finiscono paradossalmente per discriminare le famiglie a basso reddito rispetto a chi è disoccupato e sotto la linea della povertà, più supportato dal sistema di provvidenze). E l’impossibilità dei giovani di accedere a buone scuole e università non è frutto dell’assenza di risorse economiche a supporto delle famiglie, quanto della totale mancanza di informazione e ambizioni che l’isolamento comporta (secondo Vance, vivere perennemente in realtà degradate, in quartieri omogenei per composizione sociale, in assenza di qualunque contatto con ambienti e stimoli diversi, stronca qualunque possibilità non solo di conoscere, ma perfino di concepire un futuro migliore): l’autore indica come esempio l’articolato sistema di borse di studio destinate agli studenti con disagi economici, che consente supporti molto più sostanziosi in atenei prestigiosi rispetto a quelli meno conosciuti. Un’opportunità controintuitiva, inimmaginabile per chi vive ai margini della rete di contatti e conoscenze.
La visione di Vance è dunque quella di un paladino dell’iniziativa e delle capacità individuali, convinto che per favorirne l’affermazione non serva un massiccio apporto di risorse statali o federali, ma l’attuazione di politiche “leggere” ma lungimiranti e di ampio raggio, intese non ad alleviare i sintomi del male con palliativi che ne perpetuano le cause, ma a riformare strutturalmente le basi dell’isolamento sociale e dell’impermeabilità delle classi e degli ambienti socioeconomici. Il concetto chiave di Elegia americana è “valore”. Se un’intera classe sociale viene esposta alla permanente mancanza di punti di riferimento morali e spirituali, se mancano la stabilità familiare, l’accesso alle istituzioni educative, alla chiesa, a esempi positivi e storie di successo, la formidabile macchina dell’orgoglio e della fiducia non potrà mai mettersi in moto per sfruttare le molteplici possibilità del sogno americano.
Le due esperienze che Vance cita come decisive, per creare questa consapevolezza di potercela fare, di poter sfuggire al retaggio secolare della depressione e della violenza, sono il periodo nei Marines e l’approdo a Yale. Nel primo caso, la vita militare è narrata come traumatico ma potentissimo antidoto ad ogni giustificazione disfattista: i progressi fisici e di carriera vengono costruiti giorno dopo giorno, urlo dopo urlo di sergenti in apparenza spietati, ma ingranaggi di un sistema che costruisce una solida fiducia in se stessi e nella possibilità di plasmare il proprio destino. A Yale, Vance comprende per la prima volta quanto la rete sociale, il sistema di relazioni, di incontri e occasioni che ne scaturiscono sia il fattore decisivo per uno scatto di vita che è soprattutto uno scarto di visione, di mentalità: ancora una volta è l’ambiente a creare l’opportunità, a spalancare scenari nuovi e impensabili per chi ha sempre vissuto in una realtà dominata dalla modestia nelle condizioni di vita e nelle ambizioni.
Certo, il J.D. Vance del 2024 appare molto lontano da quel giovane hillbilly ingenuo ma tenace, ed è lecito supporre che vent’anni di successi ed esperienza politica abbiano pesantemente offuscato in lui quel senso di autenticità, di sentimenti primordiali e vita vissuta che è la vera radice del trionfo di Elegia americana. Ma se la visione opinabilissima, semplificata, a volte rozza che emana dalla descrizione della comunità hillbilly è davvero un vecchio stereotipo ingiallito, da sacrificare sull’altare degli opinion maker di atenei e quotidiani progressisti, lo scopriremo, purtroppo, solo il 5 novembre.