CULTURA
Diventare maggiorenni: una prova di forza (quieta)
Non si può dire: una volta per tutte. “La fuoriuscita dalla minorità è un processo inconcludibile”. Non importa quale sia l’età. “L’emancipazione dai vincoli della minorità non avviene attraverso un itinerario conoscitivo lineare e ininterrotto”. Adulti si ridiventa sempre di nuovo, il processo si rinnova ogni giorno. In questo infinito movimento, in questo quadro mutevole, si inserisce la riflessione di Umberto Curi, professore emerito di Storia della filosofia all’università di Padova, autore di La porta stretta. Come diventare maggiorenni (Bollati Boringhieri). La stessa “porta stretta” che si ritrova nel Vangelo di Luca, “metafora di un percorso segnato da un’indelebile impronta agonistica”, puntualizza. “Il passaggio, alla lettera la trans-izione, comporta un movimento, e dunque rinvia a una decisione che è carica di dolore e insieme priva di ogni certezza”.
Un passaggio, un mutamento che presuppone la necessità di affrontare una battaglia e sopportare sofferenze; una scelta che coinvolge “la nostra stessa più profonda identità”. Ma si può anche decidere di restare minorenni a vita, “anzi, come osserva Kant, è questa l’opzione più comoda, perché, almeno in apparenza, ci solleva da ogni responsabilità, lasciando che gli altri assolvano alla fastidiosa occupazione di pensare al nostro posto”, attraverso l’utilizzo di precetti e formule (satzungen e formeln) che assumono la forma del comando o del divieto e concorrono a impedire il passaggio alla maggiore età. Sostituendo cioè un ragionamento libero con “l’irrigidimento di formulazioni compendiose, finalizzate a rendere impossibile, o comunque molto difficile, l’uso delle proprie potenzialità intellettuali”. La transizione è possibile solo se si pensa da sé, con decisione, reagendo alla pigrizia e alla viltà, sottraendosi alla tutela di chi vorrebbe pensare al nostro posto. Nel suo scritto Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? - dove per illuminismo, Aufklärung, si intende l’azione dell’aufklären, ovvero del rischiarare, l'uscita appunto dell'uomo da uno stato di minorità - il filosofo tedesco si sofferma ad osservare anche “la porta più larga”, riconoscendola come la più agevole, perché “meno irta di insidie, per la quale passano, più o meno consapevolmente, gran parte degli uomini”. Ma torna ben presto sul processo di emancipazione riconoscendo nella via che conduce alla salvezza un agón (dall’esito mai scontato), che richiede conoscenza e coraggio e rilancia l’imperativo oraziano del Sapere aude!, ovvero “Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza”, dell’ardimento dell’aude e dell’esercizio del sapere, senza farti guidare da altri.
Popolando il suo saggio di presenze straordinarie, da Sofocle a Dostoevskij, dalla Bibbia all’opera di Shakespeare, Curi individua diverse vie da percorrere per attuare la fuoriuscita dalla minorità. La via edipica, che prevede il parricidio: un attacco al padre al centro della vicenda del figlio di Laio, ma anche di Amleto e dei fratelli Karamazov, sia pure in modi diversi. L’uccisione del padre che però, nella leggenda del Grande Inquisitore, “non vale ad affrancare o a far diventare maturi. Non riscatta e non salva. Non è in alcun modo tramite attraverso il quale diventare maggiorenni”. L’omicidio non paga, alimenta piuttosto il circuito infernale del sangue che chiama altro sangue, portando con sé un contraccolpo in grado di depotenziare il progetto di emancipazione. E allora ecco rivelarsi la via opposta della devozione biblica alla parola del Padre e il “conseguimento della maggiore età con la risposta a una chiamata che esige la disposizione all’ascolto”. Un cammino, opposto ma non meno impegnativo rispetto al parricidio, che non è rassegnazione ma presuppone un rapporto con il Padre, svuotando se stessi “per dare completa accoglienza alla Sua volontà”. Perché, come già intuisce l’Inquisitore dostoevskijano, “la ribellione è sintomo di persistenza nella minore età”.
Parricidio o obbedienza, non vi sono alternative dunque? Esiste, in realtà, una terza strada. Inusuale. Quella della sottrazione, del “preferirei di no”, per dirla come l’umile scrivano Bartleby di Melville (così introdotto nell’opera del 1853: pallidly neat, pitiably respectable, incurably forlorn, sbiadita nella sua decenza, miserabile nella sua rispettabilità, disperata nella sua solitudine) che, come un cavallo di buon sangue ma svuotato di ogni ambizione, non si arresta di fronte all’ostacolo, né lo salta, ma scarta di lato, rivelandosi “uomo di preferenze, più che di assunti”. Non c’è ribellione in lui ma neppure sottomissione, solo la forza tranquilla della mitezza. “Non intende misurarsi, più o meno polemicamente con chicchessia – scrive Curi - Non ha certezze da esibire, verità assolute da rivelare, convinzioni granitiche a cui rimandare. Vorrebbe semplicemente non portare il peso, essere ex-onerato dal dover fare o dire qualcosa che sia allineato all’orizzonte di senso e alla gerarchia di importanza dei suoi interlocutori. Vorrebbe semplicemente essere lasciato in pace, perché non è minimamente coinvolto in tutto ciò che, intorno a lui, alimenta il pólemos di tutti contro tutti”. Senza enfasi né arroganza, la mossa del cavallo, dunque, non necessita di eroi o paradigmi da prendere a modello. “Non è vero che non vi sia alternativa alla logica dell’aut-aut – conclude Curi - Non è vero che, giunti di fronte al muro, si possa solo scegliere se rinunciare a oltrepassarlo o abbatterlo. Non è vero che il linguaggio imponga di attenersi allo schema binario del sì o del no”. Quel muro può essere aggirato, si può scegliere di non obbedire e non uccidere, grazie alla quieta intransigenza del “preferirei di no”.
Francesca Boccaletto