Profughi afgani al confine con il Pakistan. Foto: Reuters
Siano provenienti dall’Afghanistan o dall’Eritrea, dalla Siria o dal Venezuela, chi supera i confini di quel proprio paese, perlopiù sono profughi. Chi propone di accettare (a malincuore) i passeggeri degli aerei arrivati nell’ultima settimana di agosto da Kabul e chiudere (per rappresaglia) i porti italiani sul Mediterraneo o alzare muri sopra i confini europei mostra poco cuore e scarsa intelligenza. Fra il momento della fuga da una patria divenuta inospitale e pericolosa per la sopravvivenza e il momento dell’inizio di una nuova vita libera del fuggitivo sopravvissuto, sia inseritosi altrove che ritornato in patria, passano mesi, anni, decenni, dipende da molti fattori; certo è che i due momenti non coincidono. Lo si dimentica spesso quando si parla di migrazioni, che sono un fenomeno diacronico e asimmetrico: a migrare s’inizia quando si emigra, si finisce quando si immigra definitivamente altrove, in mezzo ci sono transiti geografici ed esperienze sociali, morti e disperazione, incontri e rinascite, comunque tanto incerto tempo.
Quanti ne sono partiti o ne partiranno dall’Afghanistan e quanti ne arriveranno proprio qui, a casa nostra, in Italia e nel comune di ogni singolo lettore, in queste ore, nelle prossime settimane e mesi, tra qualche anno, camminando via rotte di terra o navigando pure via rotte di mare o raramente via aereo? Fin da quando gli Stati Uniti hanno annunciato la data del ritiro finale, gli analisti di geopolitica e l’Onu hanno segnalato come almeno la metà della popolazione afghana continuasse ad aver bisogno di assistenza umanitaria (un’assistenza che prescindeva dal governo ufficiale e dalla guerra in corso) e come fosse prevedibile già nel 2021 almeno un raddoppio delle emigrazioni regolari e irregolari dall’Afghanistan, intendendo per migrare il superamento del confine patrio. Poi tutto si è svolto ancora più in fretta. Il 17 agosto vari quotidiani cartacei nazionali titolavano su una presunta “nuova” e presunta “ondata” di 2 milioni di nuovi profughi verso l’Europa. Gli stessi organi di “informazione” pochi giorni dopo parlavano di 400 mila già in marcia e prossimi all’arrivo, prendendo spunto dal dato ufficiale Unhcr di circa 550 mila profughi “interni”, presenti a fine agosto in territorio afghano, di cui 60 per cento minori, 20 per cento donne.
Riprendiamo in mano un attimo il “Global Trend 2020” ovvero dati e statistiche su rifugiati internazionali e sfollati interni al 31 dicembre 2020. Già prima del ritiro americano, l’Afghanistan era uno dei principali paesi di origine di coloro ai quali l’Onu aveva assegnato lo status di Refugee. Al momento, il Pakistan già ospita oltre 1,5 milioni di rifugiati afghani e l’Iran 800 mila. Il 68% dei circa 30 milioni di uomini e donne che avevano ottenuto asilo fino al 2020, la maggior parte da molti anni, proviene da cinque soli paesi: Siria (6,7 milioni), Venezuela (4), Afghanistan (2,6), Sud Sudan (2,2), Myanmar (1,1). Questo vuol dire che molti afghani erano fra i richiedenti in attesa d’asilo già da anni (l’Afghanistan è il primo paese per numero di richiedenti asilo) e molti altri in marcia già nella prima metà del 2021 (ammesso che mai arrivino a chiedere asilo). Le ufficiali statistiche internazionali ci dicono anche che l’86% del totale dei rifugiati viene ospitato in paesi poveri (non in Europa o in altre aree ricche) e che il 73% del totale viene ospitato in paesi poveri confinanti con quei cinque Stati d’origine. Chi sta cercando di salvarsi la vita si accontenta di salvarla, l’unico sogno è restare vivi, povero lui. Non dobbiamo convincerli a non venire, loro non sarebbero proprio voluti partire, meschini noi.
Lo stesso rapporto Unhcr calcola anche gli sfollati rimasti all’interno del territorio dei propri paesi, assistiti in vario modo da strutture dell’Onu o da protezioni civili nazionali, visto che ormai la maggior parte degli IDPs, Internally Displaced People, derivano da disastri naturali, climatici o geomorfologici. Quelli legati a guerre civili o altre discriminazioni politiche, che non superano il confine, possono talora essere protetti o assistiti dall’Unhcr stessa. A fine 2020 l’Afghanistan contava ufficialmente ulteriori 2,9 milioni di uomini e donne sfollati interni (dei quali ben il 58% minori, bambini e bambine, una delle percentuali più alte comparata agli altri paesi), ora saranno molti di più, si stima quasi 4 milioni, addirittura 7 se si considera l’incombente rischio siccità: se e quanti se ne salveranno, come e dove potranno vivere con i diritti sociali e civili al lavoro e all’educazione, quanti eventualmente emigreranno oltre confine, dipende molto dai cambiamenti climatici antropici globali e dall’evoluzione politico-istituzionale del loro paese di appartenenza. La conquista del potere dei talebani era largamente prevedibile da tempo, almeno da moltissimi mesi.
La città di Kabul, capitale dell'Afghanistan. Foto: Reuters
In Europa in questo momento vi sono pochi rifugiati, in Italia pochissimi, numeri in calo in entrambi i casi. L’anno scorso hanno chiesto asilo nell’Unione europea circa 416.600 persone, oltre 200 mila in meno rispetto al dato 2019 (631.300), e soprattutto un terzo rispetto al picco toccato nel 2015-2016 (rispettivamente, 1.321.000 e 1.259.000 richieste di asilo nell’Ue). Nel 2020 l’Italia ha ricevuto 21.200 domande di asilo (39 per cento in meno rispetto al 2019), collocandosi al quinto posto nell’UE dopo la Germania (102.500), la Spagna (86.400: incidono gli arrivi dal Venezuela), la Francia (81.800) e la Grecia (37.900). Anche considerando il dato cumulativo, non siamo affatto tra i paesi dell’Unione più impegnati nell’accoglienza. Secondo l’Unhcr, a fine 2019 il nostro paese accoglieva 3,4 tra rifugiati e richiedenti asilo ogni mille abitanti, contro circa 25 della Svezia, 18 di Malta, 15 dell’Austria, 14 della Germania, 6 di Danimarca, Grecia e Francia. Vuolsi così colà dove si puote, basta domandare.
L’Unione Europea è divisa sull’accoglienza dei profughi afghani, passati presenti e futuri. Così le forze politiche italiane, anche quelle che ora sostengono insieme il governo. L’Europa potrebbe e dovrebbe tranquillamente impegnarsi ad accoglierne 250 mila entro la fine dell’anno, l’Italia almeno 50 mila (vista la nostra posizione geografica), senza che si creino effettivi problemi amministrativi o pratici. Invece, l’accordo si cerca sul pagare i paesi limitrofi affinché se li tengano loro, una dinamica che sta in parte nelle cose a prescindere dal nostro finanziamento e in parte esclude volutamente la verifica sulla vita dignitosa dei profughi, collocati spesso in centri di detenzione (è nota la pessima situazione in Libia e in Turchia, sia che siano afghani o siriani, eritrei o venezuelani). Le norme ci sono, latita il coraggio politico.
L’assistenza umanitaria al martoriato popolo afghano non è un’emergenza contingente, all’interno e all’estero dei suoi confini; durava da decenni e durerà per almeno un altro decennio; occorrono scelte immediate e una politica di medio lungo periodo, attenta soprattutto ai diritti delle donne. Ci sono i due Global Compact dell’Onu, in particolare quello on Refugees, che lo stesso recalcitrante governo italiano sostenne anche al momento dell’approvazione finale (a differenza dell’altro). C’è la Direttiva europea numero 55 del 2001 sulla protezione temporanea (anche di gruppi da evacuare), attivabile a maggioranza senza unanimità, nell’immediato e senza status di rifugiato. C’è l’articolo 10 comma 3 della Costituzione italiana, norma di rango costituzionale, vincolante per il legislatore di ogni epoca, che garantisce il loro diritto a chiedere asilo e il nostro dovere di accoglierli. Più si tarda più i profughi saranno ricattabili dai talebani o dai trafficanti, avremo rischiosi effetti incontrollati e duraturi.
La Turchia costruisce muri di cemento al confine con l’Iran, a sua volta la Grecia una muraglia di 40 chilometri al confine con la Turchia, la Polonia barriere di filo spinato al confine con la Bielorussia. Nella fortezza europea nuovi muri sono all’ordine del giorno; non si pratica alcuna ripartizione equa e proporzionale, le ricollocazioni sono eventuali e volontarie; la questione immigratoria è affrontata solo in termini di sicurezza e paura (profughi, merce di scambio), mai in termini di occasione di lavoro e promozione (migranti, opportunità culturale e sociale). Il presidente dell’Agenzia federale tedesca del Lavoro ha appena dichiarato che la Germania avrebbe bisogno di almeno 400 mila immigrati ogni anno. Invece, in Italia qualcuno, sia al governo che all’opposizione, chiede che, vista l’evacuazione aerea da Kabul, si chiudano tutti gli ingressi mediterranei (in un anno, dal 31 luglio 2020 all’1 agosto 2021, nemmeno 50 mila immigrati sbarcati, molto meno degli italiani emigrati all’estero). Non è un atteggiamento coerente con il disagio occupazionale e con il declino demografico nei nostri paesi, tantomeno con i proclami umanitari e con politiche lungimiranti.
Liliana Segre ci ricorda sempre che anche lei trovò una frontiera chiusa, fu rispedita indietro con il padre e condannata a un campo di sterminio: oggi ha levato forte la sua voce per i profughi in arrivo. E il presidente Sergio Mattarella ha fatto altrettanto, con autorevolezza istituzionale, pochi giorni fa da Ventotene, per aprire le porte: “È come se si rinunziasse alla responsabilità di spiegare alle pubbliche opinioni che non è ignorando il fenomeno che lo si governa. Il fenomeno c’è, non è ignorandolo che si cancella o si contrasta, ma serve senso di responsabilità: bisogna spiegare che non tra un secolo ma tra venti o trent’anni la differenza demografica sarà tale da dar vita a un fenomeno migratorio scomposto che non si limiterà ai paesi di confine ma giungerà in tutto il continente fino ai paesi scandinavi”.
Il numero di afghani attualmente residenti in Italia è di circa 11 (undici) mila. A loro si sono aggiunti i circa 5 (cinque) mila meritoriamente evacuate dall’esercito italiano con i voli di fine agosto partiti dall’aeroporto assediato di Kabul, questi ultimi uomini e donne praticamente tutti collegati alla presenza italiana in Afghanistan dell’ultimo ventennio, collaboratori delle nostre istituzioni, ben a conoscenza delle nostre lingua, cultura, norme. Dichiarare che l’Italia può tranquillamente accoglierli e metterli alla prova della civile convivenza e concittadinanza è solo buon senso. Intanto, si può concertare un atteggiamento dei volenterosi paesi europei e l’applicazione della direttiva sulle emergenze immigratorie di massa, dichiarandosi disponibili a un’accoglienza programmata per tutto il prossimo anno di profughi non solo afghani e vaccinando chi arriva. È giusto e ci serve.