"Save Afghanistan" protest in London, photograph by Reuters
I “falling men” di Kabul chiudono simbolicamente, e tragicamente, vent’anni di guerra americana in Afghanistan, una guerra lanciata all’indomani dell’attacco terroristico alle Twin Towers di New York. Allora, nel 2001, era per sottrarsi agli incendi e all’inevitabile crollo delle Torri Gemelle. E quelle foto fecero il giro del mondo. Oggi, nella torrida estate del 2021, altri uomini cadono nel vuoto per una scelta di morte certa: aggrappati alle ruote degli aerei della US Air Force in partenza: il segno della disperazione per la riconquista fulminea della capitale afghana da parte dei talebani. La simmetria degli eventi a volte lascia senza fiato.
Lo stupore per quanto sta accadendo in Afghanistan, per la velocità impressa agli avvenimenti, per la clamorosa inconsistenza delle “istituzioni” (governo, esercito) faticosamente, e costosamente, costruite negli ultimi vent’anni proprio dagli americani e dai loro alleati, ha travolto perfino la Casa Bianca e lo staff del presidente Joe Biden, che fino a poche ore fa continuavano a predicare ottimismo sull’esito finale dell’avanzata talebana, innescata, incoraggiata proprio dal ritiro delle truppe americane. Lo stesso presidente americano, l’8 luglio scorso, in una conferenza stampa, aveva fatto sfoggio di un ottimismo che a leggerlo oggi fa capire quanto fosse errata la percezione “sul campo” del Pentagono: «La vittoria dei talebani non è inevitabile», aveva sostenuto Biden, offrendo numeri a sostegno delle proprie convinzioni: «L’esercito afghano è composto da 300mila soldati ben equipaggiati, mentre i talebani sono solo 75mila. Ho fiducia nelle capacità dell’esercito afghano, che è meglio addestrato, meglio equipaggiato e più competente su come si porta avanti una guerra». E alla domanda su eventuali similitudini tra l’Afghanistan e il Vietnam, il presidente americano aveva risposto con un mezzo sorriso: «Non ci sono possibilità che vediate persone che vengono evacuate dal tetto dell’ambasciata statunitense in Afghanistan», come avvenne a Saigon. I fatti sono andati diversamente. Adam Kinzinger, repubblicano, membro della Camera dei Rappresentanti e veterano dell’Afghanistan, ha dichiarato che «il caos di queste ore a Kabul fa sembrare Saigon come Disney World».
La Casa Bianca difende la scelta del ritiro
Ma Biden ha deciso di non arretrare, di non ammettere alcuna colpa, di difendere la scelta del ritiro delle truppe. «Gli americani non faranno quello che non fanno gli afghani: ossia combattere e morire per il loro Paese», ha dichiarato il presidente lunedì sera in una conferenza stampa alla Casa Bianca. «La nostra missione in Afghanistan non è mai stata pensata per costruire una nazione. La scelta che avevo era proseguire l’accordo negoziato da Donald Trump con i talebani o tornare a combattere. Quante generazioni ancora di figlie e figli d'America vorreste che mandassi a combattere la guerra civile in Afghanistan? Non ripeterò gli errori che abbiamo fatto in passato». E ancora: «So che la mia decisione sarà criticata. Ma preferisco accettare questa critica piuttosto che passarla a un quinto presidente: la responsabilità di questa vicenda si ferma a me». L’unica “ammissione” è stata sui tempi: «E’ vero, l’Afghanistan è caduto più rapidamente di quanto previsto, ma gli Stati Uniti hanno dato all’esercito afghano tutte le opzioni possibili per combattere i talebani». Come dire: se non hanno resistito è colpa loro. Anche Jack Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale, è tornato a battere sul punto: «Nonostante abbiamo speso 20 anni e decine di miliardi di dollari per fornire le migliori attrezzature, il miglior addestramento e la migliore capacità alle forze di sicurezza afghane, non siamo riusciti a dare loro la volontà. E loro alla fine hanno deciso che non avrebbero combattuto per Kabul e che non avrebbero combattuto per il loro paese». E c’è chi ha già fatto i conti: gli Stati Uniti hanno speso in vent’anni di occupazione 88 miliardi di dollari per l’addestramento e l’equipaggiamento dell’esercito afghano.
Un diluvio di critiche
Ma lo schiaffo resta. Come resta la clamorosa e per molti tratti incomprensibile sottovalutazione degli eventi da parte del Pentagono e della Casa Bianca, che si trova così a gestire una crisi di sostanza e d’immagine, interna e internazionale, come raramente è accaduto nella sua storia. «L’Afghanistan non è mai stata la guerra di Joe Biden, ma la sua brutta fine è diventata rapidamente la più grande crisi della sua presidenza», scrive il Los Angeles Times. «Quattro presidenti condividono la responsabilità dei passi falsi in Afghanistan che si sono accumulati in due decenni. Ma solo il presidente Biden sarà il volto della caotica e violenta conclusione della guerra», incalza l’Associated Press. Critiche aspre anche dall’Unione Europea, a partire dalla Germania che ha sempre sostenuto l’impegno americano in Afghanistan. Norbert Röttgen, presidente della commissione per le relazioni estere del parlamento tedesco, membro anziano della Cdu e amico di lunga data di Biden, ha dichiarato: «Lo dico con il cuore pesante e con orrore per ciò che sta accadendo, ma il ritiro anticipato è stato un errore di calcolo grave e di vasta portata dell’attuale amministrazione degli Stati Uniti. Questo danneggia in modo fondamentale la credibilità politica e morale dell'Occidente». Angela Merkel ha ammesso, durante una conferenza stampa, che sia stato un errore ritenere che le forze afghane potessero opporre resistenza ai talebani (un abbaglio che ha contagiato tutte le agenzie di intelligence occidentali): «Ora in primo piano ci sono le operazioni di evacuazione», ha detto la cancelliera. «Dobbiamo cercare di portare fuori quante più persone possibile». Anche dal Regno Unito piovono critiche: «L’Afghanistan è il più grande disastro in politica estera dai tempi della crisi di Suez», sostiene Tom Tugendhat, presidente conservatore della commissione per gli affari esteri del parlamento britannico. «Dobbiamo ripensare a come gestiamo gli amici, a chi conta e a come difendiamo i nostri interessi».
La Bbc riporta anche una dichiarazione di Malala Yousafzai, attivista pakistana che si batte per il rispetto dei diritti civili e per il diritto all’istruzione, e anche perciò bandita dai talebani, vincitrice del Premio Nobel per la pace nel 2014, che ha trovato rifugio nel Regno Unito dopo essere stata colpita dai miliziani nel 2012: «Le potenze globali e regionali devono chiedere un cessate il fuoco immediato, fornire aiuti umanitari e proteggere i rifugiati. Assistiamo completamente scioccati mentre i talebani prendono il controllo dell'Afghanistan. Sono profondamente preoccupata per le donne, per le minoranze e i difensori dei diritti umani». Perché il futuro di chi resta è un’incognita, soprattutto per le donne afghane (il ritorno degli integralisti islamici rappresenta un pericolo serissimo), nonostante in queste ore gli stessi talebani abbiano proclamato un’amnistia generale in tutto l’Afghanistan, esortando perfino le donne a unirsi al governo, con l’obiettivo di riportare la calma nella capitale, dopo l’assalto di migliaia di persone in cerca di una fuga disperata all’aeroporto internazionale, intitolato a Hamid Karzai, presidente fino al 2014.
Immediata apertura dei corridoi umanitari
Ma l’altro enorme problema è la gestione di chi riesce a fuggire, delle centinaia di migliaia di profughi che lasciano il paese. L’UNHCR, l'Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha appena pubblicato un “avviso di non ritorno” per l'Afghanistan, chiedendo formalmente un divieto di rimpatrio forzato dei cittadini afghani, compresi i richiedenti asilo la cui richiesta è stata respinta. E si moltiplicano le richieste, soprattutto in Europa, per un’apertura immediata di corridoi umanitari. Anche il Commissario Paolo Gentiloni ha preso posizione: «Penso che l’Europa dovrà inevitabilmente dotarsi di corridoi umanitari e di accoglienza organizzata, anche per evitare flussi incontrollati di clandestini. O, almeno, dovrebbero farlo i Paesi che sono disposti a farlo». L’Europa sul punto, come spesso accade, è divisa. L’Austria ha confermato la linea dura, mentre Germania e Olanda hanno sospeso i rimpatri forzati. I governi di Albania, Kosovo e Macedonia del Nord hanno dichiarato di aver risposto all’appello lanciato dagli Stati Uniti per “accogliere temporaneamente un certo numero di migranti politici”. Il premier albanese Edi Rama ha tenuto a precisare: «Non lo facciamo perché ce lo chiedono gli Stati Uniti, ma perché siamo l’Albania».
Il tema profughi, ovviamente, è un problema che va ben oltre i confini dell’Afghanistan e dell’Europa. Anche il Canada ha dato disponibilità a ricollocare ventimila profughi afghani, mentre gli Stati Uniti hanno indicato in 30mila il numero di rifugiati (soprattutto personale che in questi anni ha lavorato al fianco delle truppe statunitensi) che saranno accolti, nel Wisconsin e in Texas. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni stima che dal ritiro delle truppe americane, e alleate, almeno 30.000 persone a settimana sono riuscite a lasciare il paese, soprattutto verso l’Iran. Mentre l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ritiene che dall’inizio del 2021 siano circa 400mila gli afghani costretti a lasciare le loro case e sfollati all'interno del paese, l’80% dei quali sono donne e bambini.
Ma la responsabilità, anche in questo caso, finisce per ricadere sulle spalle della Casa Bianca. Tra le tante prese di posizione, forse la più lucida e impietosa è quella di Ali Noorani, presidente del National Immigration Forum: «L’occhio cieco dell’amministrazione Biden sui cittadini afghani è una macchia per gli Stati Uniti. Dopo l’annuncio del ritiro delle truppe statunitensi dall'Afghanistan, non è stato difficile prevedere il crollo della nazione. Ciò che sorprende è l’assoluta mancanza di pianificazione da parte dell'amministrazione per sviluppare ed eseguire un piano per proteggere le vite di decine di migliaia di cittadini afgani che hanno lavorato con i nostri militari. Uomini, donne, bambini il cui unico crimine era quello di aiutare le nostre truppe saranno uccisi di conseguenza».