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Partiamo da una domanda: fino a che punto le leggi che consideriamo universali – cioè effettivamente valide nell’intero universo – sono effettivamente tali? Possiamo essere certi che i principi fondamentali della fisica, e ancor più quelli della biologia, agiscano su altri pianeti come sulla Terra? E quandanche supponessimo che sì, tali leggi sono realmente universali, potremmo fare affidamento sulla ragionevole certezza che la vita, in altre parti dell’universo, possa svilupparsi seguendo percorsi simili a quelli che si sono realizzati sul nostro pianeta?
È da queste domande che muove la trattazione di Marco Ferrari, biologo e divulgatore scientifico, nel suo ultimo libro, “Come costruire un alieno. Ipotesi di biologia extraterrestre” (Codice Edizioni, 2021). Un saggio denso di informazioni, che si interroga su uno dei più affascinanti quesiti sollevati dall’osservazione del cosmo: può esistere vita su altri pianeti? E sotto quali forme potrebbero presentarsi gli ‘alieni’ a un ipotetico visitatore?
Compiendo una scelta programmatica, l’autore decide di evitare fantasiose descrizioni e ipotesi azzardate, rivolgendosi piuttosto alla scienza per trarre da essa le regole del gioco: provare a immaginare, in base alle nostre conoscenze sull’unico tipo di vita che conosciamo – quello terrestre –, quali traiettorie evolutive potrebbero essere state esplorate su altri pianeti. La prima ‘regola del gioco’ è presto detta: Ferrari ha pochi dubbi che, tra le leggi biologiche, ve ne sia almeno una sicuramente universale, l’evoluzione.
Eppure, già a questo punto si incontrano diverse difficoltà. Dapprima, è necessario chiarire quale parte della teoria evoluzionistica – di per sé complessa e stratificata – dobbiamo considerare universale: Ferrari, convinto darwinista, afferma di volersi attenere «all’interpretazione ristretta dell’evoluzione biologica», senza conferire necessariamente universalità alle teorie accessorie che, nel corso del XX e XXI secolo, hanno arricchito e completato il nucleo darwiniano.
In secondo luogo, dobbiamo definire quale sia l’oggetto di ricerca: cosa intendiamo, cioè, quando parliamo di ‘vita’? Le definizioni proposte nel tempo sono numerosissime e variegate, ma tutte puntano a chiarire quale sia la specificità della vita rispetto al mondo non vivente. Inoltre, definire cosa sia (e come si sia formata) la vita è essenziale anche per stabilire se, effettivamente, la sua emersione sia un passaggio obbligato nell’evoluzione dell’universo, oppure sia solo un accidente. Nel primo caso, possiamo ragionevolmente supporre che la vita sia diffusa pressoché ovunque nell’universo, seppur in forme e modalità eterogenee; nel secondo caso, invece, nulla vieta che quello terrestre sia soltanto un esperimento casuale che, se ‘riavvolgessimo il nastro della storia’, come suggeriva S.J. Gould, difficilmente potrebbe ripetersi in modo simile. Ferrari opta per l’ipotesi della ‘vita diffusa’ in ragione del fatto che, esistendo nell’universo una quantità di pianeti con caratteristiche simili alla Terra, possiamo immaginare «che la vita sia, se non inevitabile, almeno estremamente frequente nell’Universo».
A questo punto, il gioco prosegue con l’esplorazione della possibilità che le caratteristiche fondamentali che osserviamo in riferimento alla vita sulla Terra siano più o meno universali, più o meno riproducibili in altri pianeti, e dunque più o meno probabili in altre traiettorie evolutive. E l’analisi viene condotta ripercorrendo la storia della vita sul nostro pianeta: dalla comparsa dei primi elementari composti organici e delle prime forme viventi alle prime differenziazioni metaboliche, alla ‘catastrofe dell’ossigeno’, che ha rivoluzionato l’intero volto del pianeta, ponendo le basi per la vita come oggi la conosciamo.
Esaminare i primi stadi della vita sulla Terra suggerisce una prima conclusione: che, con ogni probabilità, i ‘mattoni’ che sono alla base della vita siano generalmente gli stessi in tutto l’universo. Insomma, è probabile che su pianeti con condizioni di abitabilità simili al nostro troveremmo acidi nucleici e proteine come fondamento di potenziali forme viventi. Come questi potrebbero interagire, invece, potrebbe essere tutt’altro che facile da indovinare.
Non è detto, ad esempio, che la tendenza verso la complessità che si rintraccia nel corso dell’evoluzione della vita terrestre sia una necessità: in un ipotetico altro pianeta, infatti, organismi particolarmente semplici potrebbero, una volta raggiunta l’efficienza in termini metabolici, continuare ad espandersi fino a ricoprire l’intero pianeta, ma potrebbe non verificarsi mai alcuna transizione evolutiva verso forme di vita più complesse, come è invece accaduto sulla Terra. Torna, ancora una volta, la dialettica tra caso e necessità: «Siamo proprio certi che la complessità non si possa fermare a un certo punto?».
Nell’immaginare un alter ego del nostro mondo, l’autore si interroga non solo su come potrebbero apparire i suoi abitanti – sulla loro composizione biochimica, sulla loro forma, sulle loro funzioni vitali – ma anche sulle relazioni che si potrebbero instaurare tra questi. In altre parole, come potrebbe essere un’ecologia aliena? Prendere spunto dalle nostre conoscenze è, in questo caso, tutt’altro che semplice: la nostra conoscenza dell’ecologia terrestre è, infatti, tutt’altro che completa, ed «è per questo, dato che non sappiamo ancora con precisione come nascono e soprattutto si sviluppano le comunità e gli ecosistemi, che è possibile pensare che anche le ecologie di altri mondi e di altri tempi obbediscano a leggi, o regole, diverse da quelle della Terra».
Anche in questo caso, dunque, attingendo alle pressoché infinite strade di sviluppo tentate dall’evoluzione nel corso della storia della vita terrestre, si può provare a delineare un mondo alieno – purché sufficientemente simile, quanto a condizioni iniziali, alla Terra, nostro unico record statistico. E allora, ipotizza Ferrari, la vita su un altro corpo celeste potrebbe presentare strutture simili a quelle che caratterizzano i nostri animali o le nostre piante: il corpo a struttura bilaterale, ad esempio, potrebbe addirittura essere, «nella maggior parte dei pianeti con condizioni simili a quelle della Terra … il progetto dominante». Potremmo imbatterci, proprio come sul nostro pianeta, in occhi, zampe, orecchie – seppur opportunamente modificate a seconda delle particolari condizioni ambientali e delle esigenze di sopravvivenza dell’organismo che le possegga; questi organi, simili a quelli a noi noti, potrebbero anche svolgere funzioni inattese, ancora per rispondere all’ambiente nei quali si sono evoluti. E lo stesso potrebbe dirsi per il mondo vegetale: perché non immaginare, ad esempio, piante mobili, o alberi la cui fotosintesi è sintetizzata su lunghezze d’onda diverse rispetto a quelle terrestri, e che dunque si presentano con foglie dai colori psichedelici – rosse, viola o blu?
Le combinazioni possibili sono pressoché infinite. Il punto veramente interessante, dunque, non è quali forme o funzioni potrebbero assumere eventuali ‘alieni’, ma a quali leggi dovrebbero sottostare: e in “Come costruire un alieno”, con la scusa di esplorare le possibili forme di vita parallele alla nostra che potrebbe abitare nel cosmo, Ferrari ci accompagna e guida nel labirinto dell’evoluzione darwiniana, punto di partenza e autentico scopo della narrazione, orizzonte di riferimento per esplorare, attraverso una “fantasia controllata”, sottostante alle leggi universali della vita, le reali possibilità che gli alieni esistano.