UNIVERSITÀ E SCUOLA
Ansia e dottorato. Tutelare la salute mentale dei ricercatori di domani
I laureati e le laureate che decidono di proseguire la loro formazione universitaria e intraprendere quindi la strada del dottorato di ricerca compiono una scelta dettata il più delle volte dalla passione per il loro ambito di studi, dal desiderio di conoscenza e dalla volontà di partecipare in prima persona al futuro della ricerca scientifica e contribuire attivamente al progresso culturale, scientifico e tecnologico della società. Lungo questa strada si possono incontrare grandi gioie e soddisfazioni, ma il percorso è pur sempre lungo, faticoso e a tratti impervio.
Per questo motivo, negli ultimi anni sono stati condotti diversi studi per monitorare lo stato di salute mentale dei dottorandi e delle dottorande e capire quali sono i principali fattori che possono costituire un rischio per il loro benessere psicologico. Ad esempio, secondo un sondaggio internazionale pubblicato su Nature, il 36% dei dottorandi e delle dottorande si è rivolto a servizi di supporto psicologico per la cura dell'ansia e della depressione. Inoltre, una metanalisi condotta nel 2021 e alla quale hanno collaborato ricercatori provenienti da diversi atenei degli Stati Uniti e del Regno Unito ha rilevato che su un campione complessivo di 23.469 studenti e dottorandi, il 24% mostrava sintomi di depressione clinicamente significativi e che su un campione di 15.626 studenti e dottorandi, il 17% riferiva sintomi di ansia clinicamente significativi.
Struggling with the stress your PhD is putting on you?
— Max Planck PhDnet (@maxplanckphdnet) July 21, 2021
Challenging working conditions, insecure career prospects, pressure to perform,...and many more factors are causing worrisome mental health states among doctoral researchers.
A systematic review: https://t.co/aRX55LH8Fe
Questa tesi è stata recentemente confermata anche da un gruppo di ricercatori dell’università del Sussex, che hanno condotto uno studio che ha coinvolto 3352 dottorandi e ricercatori che svolgono la loro attività nel Regno Unito. Si tratta del primo lavoro di ricerca condotto per confrontare il livello medio di salute mentale dei dottorandi e delle dottorande con quello dei loro coetanei che lavorano in altri settori. Gli autori hanno infatti formato anche un gruppo di controllo composto da 1256 giovani lavoratori non impiegati nelle università per capire se ci fosse, effettivamente, una maggiore incidenza di malattie mentali tra i dottorandi e i ricercatori universitari.
I risultati dello studio sembrano confermare questa ipotesi per quanto riguarda alcuni disturbi mentali, come ansia e depressione. Infatti, la maggior parte dei dottorandi e dei ricercatori intervistati riteneva che fosse “normale” sviluppare un problema di salute mentale durante il periodo del dottorato e più di 1/3 ha ammesso di aver accarezzato l'idea di abbandonare gli studi a causa dello stress psicologico dovuto ai ritmi di lavoro. Inoltre, quasi il 15% dei partecipanti ha effettivamente interrotto il suo percorso di dottorato a causa di un problema mentale.
"It’s high stress and a lot of sleepless nights. I was told many times before starting that it’s a ton of work, but I think I underestimated it." https://t.co/POtGPW81T4
— Nature Careers (@NatureCareers) January 1, 2022
Secondo gli autori dello studio, questi risultati evidenziano la necessità di continuare ad approfondire la questione per chiarire quali siano i principali ostacoli incontrati dai dottorandi e dalle dottorande sul luogo di lavoro e in che modo queste difficoltà possano impattare negativamente sul loro benessere mentale e psicologico.
“Scegliere il percorso della ricerca scientifica impone indiscutibilmente delle sfide peculiari: alcune di queste riguardano la necessità di organizzare il proprio tempo e di affinare delle strategie sempre più sofisticate per prioritizzare le proprie scadenze” riflette Michela Rimondini, ricercatrice senior in psicologia clinica all’università di Verona e dirigente psicologa all’Azienda ospedaliera universitaria integrata di Verona. “Stiamo parlando, infatti, di un contesto di lavoro che richiede flessibilità e disponibilità a trovare dei compromessi nella conciliazione tra vita privata e lavorativa. In questo mondo, la ricerca di un giusto equilibrio è un processo dinamico, che varia a seconda delle fasi della ricerca, della carriera o delle scadenze. Tutto questo richiede chiaramente uno sforzo mentale importante e anche un’adeguata capacità di gestire ansia e stress. Non è facile lavorare sotto pressione e in tempi stretti mantenendo alta la concentrazione e conservando quella certa dose di creatività che è sempre necessaria per realizzare un buon prodotto scientifico.
Per tutti questi motivi è verosimile ritenere che i dati rilevati nello studio inglese riflettano, almeno in parte, anche la situazione italiana. Naturalmente, ogni contesto di ricerca ha le sue differenze peculiari a seconda del paese di riferimento. Ad esempio, sappiamo che in alcuni contesti, tra cui quello italiano, un ulteriore motivo di ansia e di stress può riguardare la condizione di precarietà in cui si trovano gran parte dei dottorandi e delle dottorande. (A questo proposito, l’ADI – Associazione Dottorandi Italiani denuncia che nel nostro paese solo il 6,3% degli assegnisti di ricerca riesce a proseguire la sua carriera nell’ambito della ricerca universitaria, ndr.). Lavorare in un mondo che impone grandi sacrifici a fronte di relative certezze è motivo di preoccupazione per il proprio futuro, mina il benessere psicologico e incide anche sull’umore”.
“Ci sono due principali ragioni per cui nell’ultimo periodo è aumentato l’interesse verso questo tema”, continua Rimondini. “In primo luogo, in questi anni è cresciuta l’attenzione verso l’importanza della salute mentale in generale da parte della società. Inoltre, nel mondo accademico si sta pian piano affermando una nuova consapevolezza rispetto alla qualità e al valore delle relazioni interpersonali nel settore della ricerca.
Per capire questo punto è utile fare un passo indietro. Sappiamo che le persone che si formano nella ricerca scientifica devono possedere, accanto alle cosiddette hard skills (le competenze, le conoscenze e le capacità strettamente legate allo specifico settore scientifico di riferimento) anche alcune soft skills, ovvero quelle competenze legate all’atteggiamento, al modo di relazionarsi e di gestire i problemi sul luogo di lavoro che sono trasversali a tutte le discipline.
Ebbene, ci si sta progressivamente accorgendo che le soft skills più importanti per un ricercatore non sono quelle di tipo manageriale-organizzativo che premiano chi è più competitivo, bensì quelle relazionali, come la capacità di collaborare, comunicare e gestire i conflitti sul luogo di lavoro. In altre parole, le competenze che fanno la differenza non sono solo quelle che portano al raggiungimento della meta, ma anche quelle che danno valore al percorso di ricerca e alla crescita professionale e personale del ricercatore. La competizione può essere utile per stimolare la produzione di nuove idee e spingere a raggiungere standard sempre più elevati; nonostante questo, essa deve sempre muoversi all’interno di alcuni paletti etici che dettano le regole del gioco. Possiamo domandarci, infatti, se sia giusto definire un risultato scientifico veramente valido se il suo raggiungimento ha implicato atti di disonestà o problemi di collaborazione all’interno del gruppo di ricerca.
Per questo motivo, potrebbe essere utile inserire nel percorso di formazione curriculare dei dottorandi anche alcuni corsi sulle soft skills che insegnino non solo i modi migliori per organizzare il proprio tempo, il problem solving e la capacità di lavorare in gruppo, prendere decisioni e gestire il conflitto in modo costruttivo, ma anche delle strategie per affrontare il disagio emotivo e ridurre lo stress. Fortunatamente, oggi sempre più atenei offrono servizi di supporto psicologico per i dottorandi e le dottorande che ne fanno richiesta”.
Anche il Centro di Ateneo dei servizi clinici universitari psicologici (SCUP) dell’università di Padova mette a disposizione una rete di sportelli di ascolto e servizi di assistenza psicologica rivolti a tutti gli studenti e dipendenti che abbiano bisogno di un aiuto professionale per gestire difficoltà di vario genere legate alla vita lavorativa e personale.
“È sempre necessaria, inoltre, una presa di responsabilità da parte dell’ateneo riguardo al contesto in cui si svolge la ricerca”, aggiunge Rimondini. “È fondamentale, infatti, che le scuole di dottorato offrano ai ricercatori dei percorsi che non siano solo centrati sui loro bisogni strettamente formativi, ma che insegnino anche l’etica della ricerca e l’importanza della collaborazione e del rispetto tra colleghi, della tutela della proprietà intellettuale e della valorizzazione dei talenti. Solo in questo modo sarà possibile formare delle figure professionali mature, solide e competenti in grado di ottenere ottimi risultati scientifici senza farsi schiacciare dalla pressione psicologica.
Infine, è importante evidenziare un altro problema che può diventare causa di frustrazione e disagio psicologico: quello del gender gap. Se infatti, come abbiamo visto, tutti i dottorandi sono purtroppo esposti al rischio di sviluppare alcuni problemi di salute mentale, questo vale a maggior ragione per le donne. Come sappiamo, le dottorande e le ricercatrici fanno ancora oggi molta fatica a veder riconosciuti i loro meriti, ottengono meno finanziamenti per i loro progetti di ricerca e incontrano molte difficoltà nella conciliazione tra lavoro e vita privata. Negli ultimi anni anche questo tema sta incontrando, fortunatamente, più attenzione nel dibattito pubblico. Eppure, c’è ancora molta strada da fare per ridurre le diseguaglianze di genere nel mondo della ricerca scientifica. Per superare questi ostacoli è necessario realizzare un cambiamento sistematico di alcuni paradigmi culturali e sociali”.