Foto: Reuters/Guglielmo Mangiapane
42 esseri umani lasciati in mare, su una nave battente, per 17 giorni. Ecco cosa è successo davanti a Lampedusa nelle ultime settimane. Il caso della Sea Watch è diventato un vero e proprio caso mediatico; uno dei rischi da non sottovalutare, però, è il conseguente atteggiamento di rassegnazione e di desensibilizzazione di fronte all’avvenimento in questione.
La verità è che ne abbiamo lette talmente tante di queste notizie da pensare “che cosa c’è di nuovo?” Risale a poco tempo fa, infatti, la foto shock che aveva fatto il giro del mondo: quella di un padre annegato con la sua bambina nel Rio Grande, nel tentativo di entrare in Texas dal Messico. Eppure, fa paura l'idea che per quanto si resti colpiti da simili immagini, i brividi che percorrono la schiena siano in realtà sempre di meno.
Possibile che ci stiamo davvero abituando a sentir parlare di tragedie simili, in cui i diritti umani vengono schiacciati e vittime innocenti si trovano in balia di situazioni tragiche? O è una mera percezione?
Nella storia della filosofia, il problema viene lungamente affrontato. Già Hume, nel Trattato sulla natura umana, intendeva delineare le caratteristiche delle capacità conoscitive e del senso morale appartenente agli esseri umani, come per esempio il fatto di provare una maggiore simpatia nei confronti di coloro che ci sono vicini. Non è un segreto che il male che capita a un nostro familiare o una persona che conosciamo ci colpisce di più rispetto a una tragedia che capita a uno sconosciuto.
Una riflessione analoga viene sviluppata da Ingmar Persson e Julian Savulescu, filosofi e bioeticisti, che nel loro scritto Inadatti al futuro. L'esigenza di un potenziamento morale, parlano della cosiddetta morale del senso comune (common-sense morality) che coinciderebbe, banalmente, con un certo modello morale apparentemente intrinseco agli esseri umani, delineando un quadro piuttosto dettagliato di cosa si intenda per moralità del senso comune.
La prima caratteristica è la miopia morale, che può essere riassunta con una certa propensione a concentrarsi su eventi e persone vicini nello spazio e nel tempo, o riguardo alle quali si riconosce una certa affinità, il che porta alla reale paura che la stessa sorte possa toccare personalmente.
Un altro limite è quello della moralità diluita. Ovvero: abbiamo una certa quantità massima di interesse e compassione che possiamo provare per gli altri. Questo significa che se una sventura colpisce un gruppo consistente di individui, il dolore che proviamo è esattamente lo stesso che sentiremmo se la stessa disgrazia fosse capitata a un’unica persona, solo che viene idealmente distribuito tra tutte.
A questo si potrebbe aggiungere che, nel momento in cui un certo avvenimento tragico si ripropone, l’attenzione che gli viene dedicata tende progressivamente a diminuire. Un evento, per quanto drammatico, se ripetuto spesso, diventa abitudine. Se poi a tutto ciò si accompagna il fatto che tali eventi siano lontani da noi, ecco come tragedie come quella della Sea Watch vengono recepite dall’opinione pubblica come notizie di semplice cronaca. Di cui si prende atto e basta.
Abbiamo chiesto al professor Antonio Da Re, docente di filosofia morale all’università di Padova, di aiutarci a riflettere sulla questione, per capire cosa ci sia di vero in questa tesi della presunta assuefazione al disumano e a quali possano essere le cause di un simile fenomeno.
“Paul Ricoeur ha scritto che è terribilmente facile ritornare barbari”, spiega il professore. “In altri termini, un atteggiamento di rispetto dell’altro, di considerazione del suo valore e di disponibilità ad aiutare, è una lunga e faticosa conquista e soprattutto non è mai data una volta per tutte. Sia nelle vite delle persone che nella storia delle culture e dei popoli si possono facilmente rintracciare delle regressioni, che sconfinano con il disumano. Ciò non avviene all’improvviso, ma lentamente, per esempio attraverso una mutazione progressiva del linguaggio, sempre più violento, intollerante e privo di qualsiasi capacità argomentativa: i segni di ciò li possiamo constatare facilmente negli innumerevoli post che quotidianamente affollano i social, grondando intolleranza e violenza, oppure nelle varie arene dei talk show televisivi”.
L’assuefazione, però, che sia un limite intrinseco della nostra natura o un meccanismo di difesa davanti a tanta sofferenza, necessita anche di una certa auto-rassicurazione sul fatto che l'episodio in questione non sia disumano, attraverso una sorta di auto-giustificazione. Paradossalmente, non è solo l’assuefazione a essere grave, ma lo è anche il mancato riconoscimento del fatto che si sia superata una determinata soglia. Il non commuoversi più davanti alle persone che muoiono, è comunque accompagnato dalla ricerca di una motivazione che spesso ricade nel razzismo, nel pregiudizio o nell'intolleranza.
“L’aspetto sul quale conviene riflettere è che nessuno di noi ammetterà mai di essere diventato disumano”, commenta il professor Da Re. “Fa parte dello stesso fenomeno dell’assuefazione il fatto che il soggetto non riconosca di fronte a se stesso e agli altri di stare scivolando verso il disumano. Verranno accampate allora mille giustificazioni, come nel caso Sea Watch e della sua comandante Carola Rackete (non è italiana, non ha rispettato la legge, la sua nave non è altro che un “taxi del mare”). E allora ci si accanirà con i 42 migranti da giorni diventati gli inconsapevoli colpevoli dei molti mali italiani. Nel frattempo, senza tanto clamore, può accadere, e in modo assai più frequente di quanto non si creda, che sbarchino quotidianamente sulle coste italiane, nel più totale silenzio di stampa e televisione, ben più di 40 profughi. È una fake news? No, è una notizia, la cui attendibilità può essere facilmente verificata andando a controllare i dati del cosiddetto cruscotto quotidiano sull’immigrazione, sito approntato qualche anno fa dal Ministero dell’Interno e ancora attivo. Forse un primo antidoto, non certo l’unico, per evitare il pendio scivoloso verso la disumanizzazione è costituito proprio dalla volontà di capire e di andare a verificare la fondatezza o meno delle tante ‘verità’ che ci vengono propinate come indiscutibili”.