SOCIETÀ

Big Oil, quali menzogne e responsabilità sulla crisi climatica?

Lo scorso 28 ottobre, nella sala del Congresso degli Stati Uniti erano presenti gli amministratori delegati di quattro fra le più importanti compagnie petrolifere del mondo: ExxonMobil, Chevron, Shell e BP. Il motivo? Un’audizione fortemente voluta dai parlamentari del Partito Democratico americano, con l’obiettivo di far rispondere le aziende del danno ambientale che hanno contribuito a creare e del quale – come dimostrerebbero molteplici documenti riservati che iniziano a essere resi pubblici – erano ben consapevoli da decenni.

Negli ultimi tempi, negli Stati Uniti (e non solo) sono sempre più numerose le cause intentate ai danni delle compagnie petrolifere: ai giudici si chiede di riconoscere la loro responsabilità per aver fortemente contribuito all’avanzare della crisi climatica, della quale tutto il mondo – presente e futuro – subirà le conseguenze.

Compagnie come la ExxonMobil sono accusate di aver tenuto segrete le proprie conoscenze relative alla correlazione tra combustione di fonti energetiche fossili e innalzamento delle temperature medie globali, presentate ai dirigenti numerose volte nel corso degli anni dagli scienziati ingaggiati dalle aziende stesse. Eppure, nonostante questa consapevolezza, i documenti destinati al pubblico, così come le campagne pubblicitarie, hanno per anni proposto una narrativa completamente diversa, che minimizzava (o addirittura negava) l’esistenza della crisi climatica e, soprattutto, la correlazione con le attività di Big Oil.

Al tema della disinformazione vengono oggi dedicati studi sempre più approfonditi. Big Oil non è infatti il primo settore industriale che – soprattutto negli Stati Uniti, ma anche nel resto del mondo – finanzia e diffonde campagne di disinformazione per proteggere i propri affari: una vicenda molto simile è quella che vide come protagonista, nei decenni passati, l’industria del tabacco, che fino all’ultimo (cioè quando ormai le evidenze scientifiche erano schiaccianti) provò a minimizzare da una parte la pericolosità dei propri prodotti per la salute umana, e dall’altra la propria responsabilità nell’epidemia di patologie correlate al fumo che il suo mercato aveva generato.

Geoffrey Supran, ricercatore all’università di Harvard e collaboratore di Naomi Oreskes (nota storica della scienza che ha studiato a lungo i nessi tra scienza, disinformazione ed economia), si occupa proprio di costruire analisi quantitative storiche sulla disinformazione intorno al cambiamento climatico finanziata dalle industrie dei combustibili fossili. Recentemente, ha pubblicato sulla rivista americana Science un articolo che smaschera proprio le tecniche retoriche utilizzate da Big Oil nella propaganda contro la crisi climatica.

Tecniche per una comunicazione disonesta

Se dapprima – intorno agli anni Novanta dello scorso secolo – le grandi compagnie petrolifere avevano buon gioco nel negare la realtà dei cambiamenti climatici e le evidenze circa la loro origine antropogenica, approfittando dell’esistenza di una (seppur ridotta) discordanza tra i pareri della comunità scientifica, nel corso degli anni, di fronte al consenso scientifico ormai pressoché unanime, queste hanno dovuto modificare le proprie posizioni. Non di molto, tuttavia: secondo Supran, si può riassumere questo cambiamento come un passaggio dal “negazionismo” (denialism) al “ritardismo” (delayism). Quest’ultimo, per di più, si sta rivelando ancora più dannoso rispetto alla completa negazione del problema climatico, poiché con argomentazioni e strategie più subdole è riuscito nell’intento di rallentare l’impegno della politica nel prendere provvedimenti per l’adattamento e la mitigazione.

Analizzando centinaia di documenti pubblici e privati prodotti negli anni dalla ExxonMobil e creando una statistica dei temi e delle frasi più frequenti, Supran è riuscito a dimostrare che la compagnia ha utilizzato (e continua a farlo ancora oggi) strumenti retorici molto simili a quelli impiegati nella campagna di disinformazione sostenuta dall’industria del tabacco nella seconda metà del Novecento.

I tre espedienti principali sono i seguenti:

  • Mettere in discussione la realtà del cambiamento climatico antropogenico e la sua pericolosità;
  • Rappresentare il massiccio ricorso a fonti energetiche fossili come vantaggioso e, soprattutto, come inevitabile;
  • Addossare tutta la responsabilità della crisi ai consumatori, piuttosto che alle attività estrattive dei produttori di combustibili fossili.

È interessante, inoltre, come anche l’utilizzo di termini specifici abbia contribuito, negli anni, a indirizzare l’opinione pubblica e a orientare le decisioni politiche. Ad esempio, definire i danni causati dalla crisi climatica come un “rischio”, e non come una realtà, sottintende l’idea che tali danni siano solo una eventualità e non un fatto.

Ancora più subdola è la promozione di una narrazione che scarica la responsabilità sulle scelte individuali di consumo, suggerendo che il problema non stia nel ricorso ai combustibili fossili, ma solo nella crescente domanda di energia da parte del pubblico. Questa tecnica – nota giustamente Supran – ha uno scopo preciso: come mostrano numerosi studi sperimentali, «i messaggi incentrati sui comportamenti individuali riducono la volontà delle persone di intraprendere azioni positive per l’ambiente sia sul piano personale, sia sul piano collettivo».

I risultati di questa strategia non si sono fatti attendere: oggi, infatti, la narrativa incentrata sulla centralità delle scelte individuali per la lotta al cambiamento climatico è molto diffusa. E non solo a livello informale, ma anche sul piano politico: le grandi industrie petrolifere sono riuscite a dare di sé un’immagine di innocenza, dal momento che la loro unica “colpa” sarebbe di rispondere alle richieste del mercato. Non è un caso – aggiunge il ricercatore – che nemmeno l’Accordo di Parigi del 2015 menzioni la questione dei combustibili fossili, che pure sono stati riconosciuti dalla comunità scientifica (impersonata, per quanto riguarda i temi legati alla crisi climatica, dall’IPCC) come una delle principali cause del riscaldamento globale.

Aggiungiamo, a latere, che anche le compagnie petrolifere nostrane – ENI, ad esempio, uno dei colossi mondiali del settore – non si sono risparmiate dall’utilizzare strategie comunicative poco limpide per raccontare la realtà a proprio modo. Ad esempio, è recente la notizia del respingimento, da parte del TAR del Lazio, della condanna subita proprio da ENI per pubblicità ingannevole e greenwashing nella presentazione di un prodotto (Diesel+) che di green non aveva nulla, se non la presentazione.

Le numerose attività di lobbying – evidenti o subliminali – finanziate e realizzate da Big Oil sono un grave intralcio all’implementazione di valide politiche climatiche, perché inquinano il dibattito pubblico e mettono in ombra i fronti più importanti su cui agire. Oggi, però, a differenza di quanto è accaduto con Big Tobacco – la cui maschera è caduta solo dopo vent’anni di lotte – c’è una risorsa scarsa che non possiamo più permetterci di sprecare: il tempo. È per questo che fare in modo che le responsabilità climatiche di queste grandi industrie siano riconosciute, e impedire che a un reale cambiamento di rotta si sostituisca un mero greenwashing, è essenziale.

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