SOCIETÀ

La preoccupante situazione in Bulgaria tra corruzione, proteste e silenzio europeo

La voce dei manifestanti, in Bulgaria, continua a crescere d’intensità. Da due mesi, ogni giorno, a migliaia scendono in piazza per chiedere le dimissioni del primo ministro Bojko Borissov, leader del partito conservatore Gerb, che da oltre dieci anni, in tre successivi mandati, è alla guida del governo. Dimissioni per corruzione. Perché Borissov è accusato, al pari del Procuratore Generale Ivan Ghescev, di favorire con la sua azione di governo, con le nomine, con i silenzi, gli scandali, le tangenti, con le sue complicità più o meno esplicite, gli interessi della criminalità organizzata, degli oligarchi locali, della “mafia bulgara”. L’anomalia è che non soltanto al fianco, ma idealmente alla testa dei manifestanti s’è schierato anche il Presidente della Repubblica bulgara, Rumen Radev, indipendente, eletto due anni fa grazie ai voti del Partito Socialista, fermamente schierato contro l’azione e le modalità del governo di Borissov. «Un governo mafioso», l’ha definito, senza troppi giri di parole.

L’innesco della crisi è stato ai primi di luglio, quando il Procuratore Ghescev ha ordinato l’arresto di due collaboratori del Presidente Radev, con l’accusa formale di “traffico d’influenze”. Uno scontro tra istituzioni senza precedenti. Poi il partito del premier ha proposto la nomina di una commissione ad hoc per la modifica della Costituzione, proponendo un dimezzamento del numero dei parlamentari (portandolo a 120 deputati) e una riforma della magistratura. Da lì la protesta è divampata in piazza, e non soltanto a Sofia. Alla metà di agosto, nel tentativo di disinnescare la rabbia pubblica, Borissov ha detto che si sarebbe dimesso ma soltanto se il Parlamento avesse eletto una Grande Assemblea Nazionale per modificare la costituzione, quello che lo stesso premier ha definito “il mio piano per riavviare il paese". I partiti di opposizione hanno respinto l’offerta. E questo è un ulteriore problema per Borissov, dal momento che per dar vita alla “Grande Assemblea Nazionale” serve il sostegno di più di due terzi dei deputati. Lui, da solo, i numeri non ce li ha. «E’ soltanto un tentativo disperato per rimanere al potere per un po’ più a lungo», ha commentato Boyan Bakardzhiev, esperto di comunicazione, secondo il quale la presenza di Borissov «ha portato al deterioramento della democrazia in Bulgaria: gli stretti legami tra oligarchia, uomini d’affari e media sono sempre più evidenti». 

La piaga della corruzione

L’ultima sessione del Parlamento unicamerale bulgaro (Assemblea Nazionale)  è stata aperta proprio da un intervento del Presidente della Repubblica, che ha rivolto ai deputati l’invito «ad accogliere le richieste dei bulgari per le dimissioni immediate e incondizionate del governo». Prima dell’inizio del discorso di Radev, i deputati di Gerb hanno lasciato l’aula in segno di protesta. Corruzione e povertà vanno a braccetto. Secondo Elena Jonceva, eurodeputata socialista, «la corruzione, di cui è intriso il sistema di potere oligarchico costruito negli anni da Borissov, è la ragione della situazione del Paese, che è il più povero dell’Unione Europea». Un rapporto del Parlamento Europeo stima che la Bulgaria perda ogni anno 11 miliardi di euro a causa della corruzione.

Così la tensione sta salendo oltre il livello di guardia. La polizia antisommossa ha tentato di bloccare l’ultima protesta di piazza, imponente, mercoledì scorso, nel centro di Sofia. Per farlo ha usato spray al peperoncino e cariche mirate contro le migliaia di dimostranti, che hanno reagito lanciando contro gli agenti pietre e petardi. Decine i feriti tra manifestanti, giornalisti e agenti di polizia. La stampa riporta la notizia di 126 arresti, tra i quali anche il giornalista e traduttore freelance Dimitar Kenarov, rilasciato nelle prime ore di giovedì.  Lo stesso Kenarov ha poi postato su Twitter una sua foto, con il volto insanguinato, denunciando di essere stato preso “brutalmente a calci in testa, nonostante avessi dichiarato di essere un giornalista. Mi hanno portato via la macchina fotografica e sono rimasto per ore in manette sul marciapiede”. In fondo lo stile ricorda quello dello stesso premier, un passato da body guard, soprannominato “il duro”.

Il silenzio dell’Unione Europea

Di tante voci una però manca, e forse è quella che fa più rumore. Quella dell’Unione Europea. Un’Unione che mostra tutta la sua fragilità, al limite dell’inconsistenza, quando si tratta di mantenere dritta la barra dei princìpi. Ed è proprio verso Bruxelles che punta il dito Hristo Ivanov, avvocato, ex ministro della giustizia nel secondo governo Borissov, ora a capo del partito di opposizione “Yes Bulgaria”, che della lotta alla corruzione ha fatto il suo mantra. «Se l’Unione Europea non è in grado di garantire standard minimi di diritto in uno stato membro debole come la Bulgaria, a cosa serve?» - ha dichiarato Ivanov in una recente intervista rilasciata a Politico. «La Commissione Europea, che dovrebbe essere massimo garante dei Trattati Ue, ha deliberatamente chiuso gli occhi su quanto sta accadendo in Bulgaria, anche se i fondi europei sono la linfa vitale della mafia», ha poi aggiunto. Ogni anno la Bulgaria versa all’Ue 487 milioni di euro, ricevendone però oltre 2 miliardi (per l’esattezza 2 miliardi e 169 milioni, dati 2018). Nei mesi scorsi Borissov ha inoltre avviato la richiesta formale per l’ingresso della Bulgaria nell’Eurozona (o meglio, nel “Meccanismo di cambio europeo”, ossia il biennio obbligatorio di attesa per un Paese che vuole entrare a far parte dell’area Euro).

Eppure da Bruxelles nessuno interviene. Nessuno commenta gli scontri, le violenze della polizia, gli arresti indiscriminati. Nessuno alza una voce per stigmatizzare la violazione sistematica delle regole democratiche messa in atto da Borissov e dai suoi accoliti. Non Angela Merkel, presidente di turno dell’Unione Europea, non Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea: ed entrambe condividono con Borissov, e con Gerb, l’appartenenza al gruppo dei Popolari Europei. Ancora parole di Hristo Ivanov: «Bruxelles e Berlino chiudono un occhio sulla mafia bulgara perché il primo ministro Borissov è un alleato cruciale dei Popolari sulla scena dell'UE. Per Bruxelles e la Germania Borissov è considerato utile e affidabile nella gestione delle relazioni con la Turchia». Un ruolo ribadito dalla stessa Merkel, che appena lo scorso maggio aveva pubblicamente annunciato la sua investitura diplomatica: «La questione dei Balcani occidentali non è semplice, ma tu, Boyko, l'hai gestita egregiamente e devi continuare a svolgere il ruolo di mediatore». Al punto che durante le recenti manifestazioni a Sofia sono comparsi striscioni con su scritto “Signora Merkel, non si vergogna di stare con un corrotto?”, oppure “Eu, are you blind?”, sei cieca?

Il rischio di uno stallo sul modello Ungheria

Insomma, il rischio per l’Ue è che si riproponga quanto accaduto con l’Ungheria, con il “modello Orban”, un altro aspirante dittatore che per motivi personali, e ideologici, ha stracciato gran parte delle regole fondanti dell’Unione per instaurare una specie di “enclave di regime” all’interno della democraticissima Europa. Che però resta silente di fronte a un limite così apertamente varcato. Per l’Ungheria l’intervento alla fine c’è stato, ma quasi obbligato, blando, giusto per far restare qualcosa sulla carta, ma senza affondare il colpo decisivo. Il Partito dei Popolari Europei continua a tentennare e paga così un prezzo assai alto in termini di credibilità per la scelta di far entrare al suo interno partiti di estrema destra, come l’ungherese Fidesz, come i polacchi di Diritto e Giustizia. Formalmente il partito di Orban è “sospeso” dal Ppe da marzo del 2019, da quando, nel pieno di una campagna elettorale, il premier ungherese aveva attaccato ferocemente il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, accusandolo (senza alcun fondamento) di favorire l’immigrazione clandestina. 

Per non parlare delle violazioni sistematiche dei diritti delle minoranze, della libertà d’espressione, del controllo sulla magistratura, degli attacchi alle Ong, della legge “schiavitù” che consente ai datori di lavoro di aumentare le ore di straordinario richieste ai dipendenti e di ritardarne fino a tre anni il pagamento, il blocco dei migranti, il mancato rispetto delle disposizioni europee. Poi, a fine marzo di quest’anno, Orban si è dato “pieni poteri” per affrontare l’emergenza coronavirus, suscitando sdegnate reazioni internazionali, salvo poi  “rinunciarvi”, con una legge “trucco” e una clausola ben precisa: la legge prevede comunque la possibilità di ampliare le prerogative del governo in caso di “stato di emergenza medica”, senza dover passare dall’autorizzazione del Parlamento. «Una chiara violazione dei principi fondamentali dell’Europa liberale e dei valori europei», secondo 13 leader di partiti membri del PPE (in rappresentanza di 11 diversi Stati) hanno inviato una lettera al presidente del Partito Popolare Europeo, Donald Tusk, chiedendo l’espulsione di Fidesz dal gruppo.

Ma nulla è accaduto. Mentre sono ancora pendenti sull’Ungheria le procedure d’infrazione (articolo 7) aperte nel 2018 e 2019. Cos’altro deve accadere perché l’Unione Europea prenda provvedimenti concreti? E questa debolezza, questo indecisione, si è trasformata in un’arma nelle mani di Orban, che ora minaccia di non ratificare l’accordo sul Recovery Fund (bloccando così l’erogazione dei fondi, così indispensabili per i paesi europei, a partite dall’Italia) perché nel testo dell’intesa c’è un riferimento a “sanzioni nei confronti di chi viola i principi fondamentali dell'Ue“, legando l’erogazione dei fondi al “rispetto dello Stato di diritto”. Diplomazie al lavoro, com’è ovvio, come sempre. Ma le soluzioni non sembrano dietro l’angolo.

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