Aprire il giornale la mattina e rimanere amareggiati o delusi leggendo degli ultimi provvedimenti politici attuati dal proprio governo non è certo cosa nuova. Lo scontento dei governati – o almeno di una loro parte – nei confronti dei governatori sembra essere una costante nella storia umana. Un mondo in cui tutti i cittadini sono d'accordo con tutte le decisioni prese dai capi politici è certamente un'utopia, per cui un certo scontento popolare sembra essere, semplicemente, inevitabile.
L'esperienza di governo inizia con, e presuppone, una precisa scelta alla base: quella dei cittadini di lasciarsi governare. Il discorso si potrebbe addentrare qui nell'origine e nelle modalità del famoso contratto sociale, della cessione allo stato di parte dei propri diritti, per ottenere in cambio salute, stabilità e sicurezza. Per farla breve, limitiamoci a sottolineare la necessità di delegare la nostra libertà di scelta a un certo numero di rappresentanti, a salvaguardia della coesione sociale e della semplificazione dei compiti.
Ecco perché, a prescindere dalle diverse modalità con cui si può esercitare il potere statale, sembra esserci un principio alla base del suo funzionamento: governare vuol dire, tra le altre cose, decidere. Non solo. È decidere per.
Insomma, il motivo per cui uno stato ottiene il potere di disporre (entro certi limiti) dei suoi cittadini è dovuto alla decisione di questi ultimi di lasciarglielo fare affidandogli delle decisioni che potrebbero essere troppo tecniche per chi non ha una visione d'insieme su tutta l'attualità che lo circonda oppure perché, banalmente, se si dovesse votare per alzata di mano su ogni argomento in un paese come l'Italia, che conta più di 60 milioni di abitanti, il risultato sarebbe decisamente caotico.
Allegoria del cattivo governo – Ambrogio Lorenzetti, 1338-1339, Palazzo pubblico, Siena
Con l'aiuto di Giorgio Cesarale, docente di filosofia politica all'università Ca' Foscari di Venezia, cerchiamo di fare chiarezza sulla questione.
Le decisioni prese dai governanti dovrebbero rappresentare la volontà della maggior parte dei governati, oppure si presume che i capi politici abbiano delle competenze che i cittadini comuni non hanno, e si confida, quindi, che ciò che scelgono, per quanto impopolare, sia comunque la cosa giusta?
“La questione delle “competenze” è in generale sfuggente e complessa”, spiega il professore. “Tanto più in ambito politico: che cosa si intende infatti oggi quando si dice, in un contesto attraversato da una forte ventata elitista, che i politici dovrebbero essere competenti? A me sembra che si intenda soprattutto la capacità, avendone una qualche cognizione, di governare i sistemi complessi del diritto e dell'economia globale. Sono competenze in un certo senso “rare”, perché presuppongono processi formativi selettivi (ottenute frequentando non solo certe scuole o università, ma anche certi circuiti aziendali etc.). Ma “competenza” non significa solo questo: legittimamente, in filosofia e non solo, si parla di “competenze” affettive, linguistiche, relazionali, che è difficile sottrarre al deposito di qualità che possono essere attinte, sviluppando un vasto raggio di esperienze, da ogni uomo. E poi vi sono le competenze acquisite grazie alla partecipazione al sistema della divisione sociale del lavoro: le competenze, per dirla con il Platone del Protagora (319 b-d) “del fabbro” o “del calzolaio”, che diventano “opinioni” politicamente significative. Oggi molti ritengono che la cinghia di trasmissione fra le opinioni dei lavoratori e quelle dei governanti debba essere spezzata, dopo che nella modernità si è inaugurato un faticosissimo processo per rimetterle in sintonia. La critica all'immediatezza delle opinioni/competenze, in quest'ultimo senso, è ovviamente giusta: ma come collegare produttivamente tutte le “competenze” di cui disponiamo? Per farlo sarebbe necessaria un'altra competenza che oggi invece appare latitare, quella “organizzativa”, di costruzione di organizzazioni politiche intelligenti”.
Cosa succede, però, quando ci si trova in una situazione in cui ci sono delle decisioni che non vengono prese? Se il governo non riesce a scegliere una strada a un'altra, sta ancora svolgendo la sua funzione? In che senso, insomma, il governare è connesso al decidere?
“Al governare inerisce senz'altro la decisione, anche se non sottovaluterei a riguardo molte altre capacità (per esempio, sulla linea di quanto pensava anche Gramsci, quella di fare “previsioni” di medio-lungo termine). Ma che cosa significa “decisione”? Nella Filosofia del diritto, Hegel fa a questo proposito una distinzione sottile, ma essenziale: “decidere” qualcosa, selezionare, entro il relativo campo di possibili “oggettivi”, un certo e determinato contenuto, una certa e determinata soluzione, significa “decidersi”, cioè portare l'immensa quantità di elementi che la nostra esistenza reca con sé a configurazione individuale. Se i governi non decidono, perciò, lasciando marcire i problemi, oppure semplicemente scaricandoli su altri, nel tempo (le prossime generazioni) o nello spazio (gli altri Stati, si pensi ai “flussi” migratori o alle “quote” di inquinamento, che sembrano non riguardarci più quando sono riassegnati ad altri), è perché le soggettività politiche non sono strutturate e quindi le esigenze e gli interessi di cui tenere conto sono molti e indeterminati e come tali persistono, non ricevendo mai una configurazione definita, la quale è sempre collegata a un progetto unitario".
Nel caso in cui un governo non prenda delle decisioni, perché temporeggia, perché non riesce a raggiungere un compromesso o per altri motivi, quali sono le ripercussioni a livello pubblico? Oltre alla paralisi e al rischio di una crisi di governo, viene meno la fiducia nelle istituzioni da parte dei cittadini?
"Sì, anch'io, come molti studiosi, ritengo che la crisi di “fiducia” dei cittadini nei confronti delle istituzioni pubbliche, ormai certificata da innumerevoli test (la crescita dell'astensionismo sopra tutti) abbia le sue vere radici nelle aspettative troppe volte deluse dei primi. In generale, il regime democratico vive di uno strutturale squilibrio fra domanda e offerta, perché la democrazia è tanto una forma sociale che riposa sul principio normativo per cui tutte le domande esistenti dovrebbero essere soddisfatte, quanto una forma di Stato. La democrazia, insomma, è pur sempre un regime che attraverso i suoi apparati e suoi meccanismi di selezione delle scelte (le elezioni) “filtra” le esigenze soddisfacibili e quelle non soddisfacibili. Ma è anche vero che l'accavallarsi delle crisi e l'acuirsi dell'instabilità richiederebbero una politica “forte” e al contempo “amichevole”, istituzioni politiche in grado di fare il management di crisi e instabilità. Si tratta di una prestazione che, per lo più, oggi le istituzioni non riescono a fornire in parte per mancanza di risorse materiali, in parte per l’insieme dei vincoli cui esse si sono nel frattempo assoggettate (è in questo contesto che va posta la “questione europea”). Per sintetizzare: si vorrebbe che la democrazia offrisse progetti e risposte convincenti, aiutasse a determinare un quadro politico grazie al quale governare le trasformazioni, ma si assiste sempre più alla sua paralisi ideale e decisionale, alla scoperta dello stretto spazio entro cui essa è costretta a muoversi. Il tanto vituperato ‘populismo’, e cioè un’esigenza rudimentalmente democratica che si combina con il rifiuto della rappresentanza, della mediazione politica, della tecnica di governo delle élite, nasce da qui”.