Wu Kang-Ren e Jack Tan in "Abang Adik"
Finché non esisteva lo streaming, festival come il Far East di Udine avevano la funzione di far conoscere a una platea scelta di spettatori occidentali, in primis gli operatori del settore, opere di cinematografie lontane, permettendo a un pugno di film di approdare per qualche giorno nelle nostre sale. Adesso, sommersi dal diluvio delle piattaforme, demandiamo a queste rassegne di qualità il compito di selezionare: non è più un problema di reperibilità delle pellicole, semmai l’inverso. Dobbiamo educarci a distinguere quello che vale davvero la pena di seguire nell’ipertrofica offerta dei portali, ben sapendo che nei cinema arriverà comunque una minima frazione di tutto ciò che viene lanciato in anteprima e poi riversato nello streaming.
Il vincitore di quest’anno (ben tre premi, tra cui il principale) è per la prima volta un film della Malesia, Abang Adik, diretto da Jin Ong, un importante produttore all’esordio come regista. È un dramma social-familiare che ha al centro le vite parallele di due fratelli (o presunti tali) che lottano contro la miseria in una Kuala Lumpur feroce e torrida. Due esistenze che contraddicono la condizione iniziale di ciascuno: perché Abang è nato muto e ipoudente, ma non passa le giornate a imprecare contro la malasorte. Sbarca il lunario trovando lavori onesti e malpagati, è assennato e gode delle piccole gioie che gli sono concesse (un flirt, un incontro con persone solidali). Adi, al contrario, ha ogni facoltà intatta, ma è animato dal rabbioso desiderio di emergere in fretta, consegnandosi alla piccola criminalità, alla prostituzione, schifando il lavoro, maltrattando gli altri.
Che non si tratti di un melodramma sdolcinato è lampante fin dalla crudissima sequenza iniziale, in cui Adi è al servizio di un trafficante di immigrati, le cui trattative con un gruppo di reietti sono interrotte da una retata della polizia, forza corrotta e violenta, prepotente con i deboli ma pronta a chiudere un occhio con chi offre di più. La Kuala Lumpur scenario della lotta per la sopravvivenza di Abang e Adi è osservata attraverso il mercato di Pudu Pasar, cuore popolare della città sullo sfondo di grattacieli in vetro e acciaio: un formicaio spietato ma vitalissimo, in cui si intrecciano drammi e opportunità. Abang, che non avrebbe altro desiderio che trovare i piccoli lavori di giornata con cui campare, è costretto a tamponare di continuo i pasticci di Adi, che nel fratello vede un sostituto di quel padre che nella loro vita sembra non essere mai comparso. Certo, esiste anche il bene, che si manifesta in due figure centrali: Money, il vecchio travestito che conosce i due fratelli dalla nascita, e li aiuta con dolcezza materna, e Jia En, giovanissima assistente sociale che interpreta il suo lavoro tra i miseri alloggi del quartiere come una missione senza compromessi. La svolta (questa sì, un po’ melodrammatica) avviene quando Adi, in uno scatto d’ira, ferisce gravemente proprio Jia En: ancora una volta sarà Abang a proteggerlo, fuggendo con lui dalla città in preda a mille rimorsi, e pronto ad assumersi ogni responsabilità pagando un prezzo altissimo.
Abang Adik è anzitutto una storia d’amore multiforme: quello che nasce da un legame fraterno (o quasi-fraterno) indissolubile, che resiste a qualunque avversità e dotato di potere salvifico (è solo dopo il sacrificio di Abang che Adi accetterà, per la prima volta, che la sua vita debba ricominciare da zero, sacrificando quel rabbioso orgoglio che lo aveva portato alla rovina). Ma anche l’amore tenerissimo, genitoriale, del vecchio Money, che pur compiacendosi della propria vita senza freni né inibizioni, non esita ad accudire i due giovani regalando i consigli e le attenzioni a loro mai concessi da un familiare. Ed è il tragico amore-abnegazione di Jia En, che s’intestardisce a voler offrire una via di salvezza anche a chi non la spera più e la respinge con violenza.
Ma il film è anche un affresco durissimo, che ritrae una società riassunta in una megalopoli in cui gli emarginati si divorano l’un l’altro per un permesso di soggiorno, la giustizia pende sempre verso il denaro, le baracche sono alveari senza uscita, e chi tenta di elargire un po’ di umanità è destinato a soccombere. Una insopportabilità del vivere compendiata nel monologo di Abang in carcere, dove un monaco tenta inutilmente di invitarlo alla quiete della rassegnazione.
Al servizio di questo viaggio nell’inferno metropolitano malese è la fotografia di Kartik Vijay, che restituisce una Kuala Lumpur grondante umidità e vita, stille di sudore e turbolenze equatoriali, neon che frantumano l’oscurità dei caseggiati popolari, mercati policromi, dominati dall’ocra delle spezie, e d’altro canto il verde monocorde, eppure abbagliante, della natura fuori città. Meno riuscite le musiche di Ryota Katayama, che accentuano con passaggi troppo enfaticamente romantici scene in sé tanto intense da richiedere, semmai, un commento sonoro molto sobrio. Gli interpreti principali sono formidabili: dall’invalido e indomito Abang (Wu Kang-Ren), con una gamma espressiva che, pur senza l’uso della voce, copre ogni dettaglio emotivo, all’iroso e fragilissimo Adi (Jack Tan), al credibile, toccante Money. Più stereotipato il personaggio di Jia En, come pure troppo repentina e pedagogica la trasformazione finale di Adi, da compare scapestrato a figlio modello. Ma Jin Ong è riuscito nel suo intento: raccontare una storia malese in cui possiamo riconoscere una sofferenza universale.