La famiglia Safari in "The Silhouettes"
The Silhouettes si apre con una foto di gruppo. E’ il ritratto della famiglia Safari, un nucleo di una quindicina di persone che vivono in una città dell’Iran. Li vediamo trascorrere una vita modesta ma, in apparenza, serena: gli uomini lavorano in una sartoria diretta dal capofamiglia, le donne si occupano della casa, i bimbi vanno a scuola. Ma i Safari hanno un problema: sono hazara, tutti di origine afghana. La loro storia inizia oltre trent’anni fa, quando marito e moglie, insieme a un bimbo di un anno e a un milione e mezzo di connazionali, lasciano il loro villaggio nell’Afghanistan lacerato dalla guerra civile e riescono a raggiungere l’Iran. Un po’ alla volta riescono a sistemarsi, a lavorare e creare una grande famiglia. The Silhouettes parte da qui. Sembrerebbe, tra le tante tragedie che colpiscono il popolo afghano, un racconto a lieto fine: e invece la regista iraniana Afsaneh Salari, seguendo ciascuno dei Safari nelle attività quotidiane, svela poco a poco il prezzo enorme che hanno dovuto pagare alla salvezza. Gli afghani in Iran sono soggetti al destino di tante minoranze etniche e nazionali: vivono vite dimezzate, privi di diritti fondamentali.
Narratore e portavoce dei Safari è Taghi, il figlio che tra tutti ha avuto il massimo privilegio, poter studiare fino all’università. Taghi sta per laurearsi in ingegneria, ma la sua attesa è amara: sa bene che non potrà avere accesso ad alcuna professione intellettuale, esclusiva degli iraniani. Per lui, l’alternativa è tra l’inserirsi con gli altri fratelli nella sartoria di famiglia, o scegliere qualche lavoro manuale non qualificato. Non è il solo a subire discriminazioni per la sua provenienza. I Safari, come tutti gli ex profughi afghani, non hanno libertà di movimento nel Paese, e perfino la piccola Masoumeh, a 8 anni, è costretta a lasciare la scuola pubblica e iscriversi in una scuola speciale per bimbi afghani. È una condanna che si trasmette da padre in figlio, e non è sanabile. Mentre il padre e gli altri fratelli accettano lo status quo, Taghi e la sorella Zahra rifiutano una vita dimezzata. Così Taghi, malgrado i timori dei familiari, decide di rispondere all’appello delle autorità afghane (i talebani non hanno ancora conquistato il potere) per far rientrare in patria studenti e giovani qualificati. Torna quindi in Afghanistan, scopre i monti e le vallate di cui ha solo sentito parlare, visita il villaggio dei genitori, partecipa a una manifestazione studentesca che si conclude tragicamente, con un attentato nel quale rischia di rimanere coinvolto. Soprattutto, studia per la sua tesi di laurea, analizzando le competenze dei lavoratori afghani che possono essere sfruttate nel suo Paese di adozione. Tornato brevemente in Iran e laureatosi, Taghi sceglierà di stabilirsi definitivamente nella terra dei genitori: non vuole sentirsi mai più, spiega, “un uccello cresciuto nel nido del vicino”. La sorella Zahra, pur rimanendo in Iran, si sottrae al destino di donna di casa, e viene ammessa agli studi di Medicina.
The Silhouettes, coproduzione filippino-iraniana vincitrice del Terra di Tutti Film Festival, ha un grande merito: riesce a raccontare un “dramma minore”, che appare tale solo a paragone dell’enormità delle tragedie che colpiscono gli afghani, senza esasperare i toni o evocare conflitti etnici. La ribellione di Taghi e Zahra alla condizione di centinaia di migliaia di connazionali in Iran è condotta in modo deciso, ma quieto. Taghi non rinnega il Paese che gli ha offerto la salvezza, ma non si accontenta di sopravvivere. Si potrebbe argomentare che, dei due fratelli, la più rivoluzionaria è Zahra, che decide di restare in Iran e combattere contro il ruolo subordinato che dovrebbe spettarle, come donna e come afghana. Ma il gesto di Taghi, con il ritorno in uno Stato ormai svuotato di talenti e speranze, ha il valore di una testimonianza preziosa, soprattutto ora che il Paese vive un nuovo periodo di totale oscurità.
La regista accompagna abilmente le giornate dei Safari, segnate dal lavoro e piccoli gesti come un tè, una conversazione davanti alla tv, i giochi dei bimbi. Ne emergono, sussurrati, conflitti e stati d’animo: la serena rassegnazione della madre, la dolce perplessità del padre di fronte all’inquietudine dei figli. Girato quasi interamente negli interni della casa familiare, The Silhouettes evoca alcuni temi senza epoca né confini, come la condizione dei migranti, il desiderio delle nuove generazioni di affrancarsi dalle precedenti, la diversa reazione alle ingiustizie, collocandoli nell’attualità di uno specifico contesto politico e culturale, e dando spessore universale al silenzioso dolore della famiglia Safari.