Il 25 settembre del 2022, mentre in Italia si svolgevano le elezioni politiche nazionali, anche i cittadini svizzeri sono stati chiamati ad affidare le proprie idee alle urne. Quella svizzera non è stata però un’elezione, ma un referendum: i cittadini del Paese dovevano esprimere il proprio consenso o la propria contrarietà rispetto ad una proposta di modifica della Costituzione che prevedeva di estendere la protezione degli animali aggiungendo al già riconosciuto diritto al benessere e alla dignità anche il diritto a “non essere allevati in modo intensivo”. Tale modifica avrebbe avuto, come diretta conseguenza, la messa al bando degli allevamenti intensivi e l’obbligo di sostituire questa modalità di allevamento con forme più rispettose sia del benessere animale, sia dell’ambiente naturale.
Che gli allevamenti intensivi siano insostenibili sul piano ambientale è noto, così come sono ampiamente documentate le indicibili condizioni in cui milioni di animali – mammiferi, in gran parte – sono costretti a condurre la loro breve e dolorosa esistenza. Eppure, a dispetto delle evidenze scientifiche, che mostravano chiaramente i potenziali benefici di una simile decisione, due terzi degli elettori svizzeri l’hanno bocciata. La proposta di modifica costituzionale, dunque, è stata respinta.
Nulla di illecito, certamente: è il gioco della democrazia. Eppure, il fatto che, pur di fronte a schiaccianti evidenze scientifiche che mostrano quali e quanti sarebbero stati i benefici in termini di salute umana, animale e ambientale, la maggioranza degli elettori abbia preferito optare per una decisione che tutela solo alcuni interessi, e che non tiene in considerazione la base scientifica di una delle due posizioni – questo fatto deve invitare alla riflessione.
L’esperienza svizzera, dunque, ci consente di ampliare lo sguardo, estendendo il nostro ragionamento a un tema annoso, quello del difficile e contrastato rapporto tra democrazia e scienza. Un tema che si è fatto, se possibile, ancor più scottante in questi anni segnati da eventi globali, totalizzanti e complessi come la crisi climatica e la pandemia, per la comprensione e la risoluzione dei quali né la scienza né le istituzioni democratiche, da sole, sono attrezzate. La scienza, infatti, non ha certamente l’autorità per prendere decisioni – ad essa si riconosce solitamente un valore descrittivo, non prescrittivo; d’altra parte, la democrazia rappresentativa, nella sua configurazione odierna, sembra essere priva dei mezzi necessari per affrontare questioni intricate, che hanno origini e conseguenze ben più estese, nel tempo e nello spazio, rispetto ai confini nazionali o regionali in cui i governi democratici possono esercitare efficacemente i propri poteri.
A spiegare le ragioni di questa difficoltà è Luigi Pellizzoni, professore ordinario di Sociologia dell’ambiente e del territorio all’università di Pisa: «Storicamente, il sistema degli stati nazione è venuto in essere per affrontare molte questioni, ma tra queste non vi erano certo le questioni ambientali. Affrontare rischi globali come il cambiamento climatico richiederebbe una scala decisionale diversa, che oggi non c’è. I tentativi compiuti hanno dato risultati molto deludenti. Si è parlato anche, in più occasioni, della possibilità di istituire delle forme di democrazia globale, ma anche in questo caso non si è mai andati oltre le pure ipotesi».
Di fronte a problemi complessi, le istituzioni democratiche si trovano ad affrontare una empasse: da una parte, infatti, vi è il dovere di garantire ai cittadini il diritto/dovere di esprimere la propria preferenza e l’obbligo di rispettare la volontà così espressa, condivisibile o meno che sia; dall’altra parte, tuttavia, vi sono casi in cui sarebbe opportuno, se non addirittura necessario, lasciarsi guidare, nella decisione, da informazioni il più possibile affidabili, le quali sono fornite soprattutto dalle conoscenze prodotte e validate dalla comunità scientifica.
«Questioni come la crisi climatica e la pandemia sono stati definiti problemi di scienza “postnormale”, intendendo evidenziare come si tratti di problemi che sfuggono alla normale gestione scientifica, che è basata sulla ricerca, ammette revisioni e che viene traslata in applicazioni pratiche sono quando sono stati raggiunti risultati consolidati».
Nell’epoca della scienza postnormale, invece, questa linearità procedurale è andata perduta. «Oggi ci si interroga su come si possano affrontare problemi che hanno carattere globale, elevati livelli di incertezza, che implicano la necessità di decisioni urgenti e spesso sono scientificamente controversi», specifica Pellizzoni. «Per alcuni, la risposta a tale cambiamento implica di ampliare la possibilità di partecipare alla riflessione collettiva, includendo nella comunità dei pari anche comunità extrascientifiche. Ciò in alcuni casi è stato realizzato, con risultati a volte incoraggianti, a volte deludenti; sempre, tuttavia, questi esperimenti sono stati riferiti a decisioni localizzate, che riguardavano tematiche complesse ma confinate in ambiti specifici. Le problematiche sollevate da una realtà inedita come è stata, ad esempio, la pandemia sono invece al tempo stesso molto globalizzate e caratterizzate da dinamiche locali molto specifiche. Questo ha creato un ulteriore problema».
Vi è poi un ulteriore ostacolo, che nasce stavolta non dall’interazione (o dallo scontro) tra processi democratici e processi scientifici, ma che è in seno a questi ultimi, come afferma il professore: «Questioni globali come il riscaldamento climatico e le pandemie non possono essere trattate scientificamente alla stregua delle domande di ricerca che lo scienziato normalmente si pone; esse sono questioni che vengono da fuori, dal ‘mondo reale’, e che incrociano prospettive molto disparate. Sono quindi problemi “sporchi” dal punto di vista scientifico: non riguardano una sola specifica conoscenza, ma una congerie di conoscenze diverse prese nel loro assieme. Sono, insomma, problemi di expertise, più che di scienza».
«In tale situazione – prosegue Pellizzoni – rimane ancora aperto il tema di come gestire in maniera ordinata il rapporto tra parere esperto e decisione politica. È un tema ancora oggi irrisolto, a cui nessuno ha saputo dare una soluzione: lo abbiamo visto con la pandemia. E nessuno ha trovato la risposta perché le democrazie rappresentative non sono attrezzate per affrontare problemi ad alta incertezza scientifica».
Alla luce di tali difficoltà, parte della riflessione politica che cerca di analizzare il ruolo dell’istituzione democratica di fronte a una sfida urgente e totalizzante come la crisi climatica sostiene che in fin dei conti, la democrazia rappresentativa sia stancamente inadeguata a trovare risposte all’altezza dei tempi. L’inadeguatezza della forma democratica fondata sulla rappresentanza è constatata non solo in riferimento alla questione climatica, ma più in generale con riguardo alla progressiva globalizzazione di processi sociali ed economici, fenomeno che lascia le realtà politiche nazionali prive di efficacia decisionale o di capacità di incidere su quegli stessi fenomeni.
E dunque, di fronte a questa inedita comunanza globale di destini, sono due le proposte più accreditate, seppur diametralmente opposte: da una parte c’è chi guarda con fiducia alla possibilità di istituire una cosiddetta governance planetaria (democratica o meno), in grado di affrontare con un approccio unitario questioni che, per loro natura, travalicano i confini nazionali; dall’altra parte vi sono coloro che, al contrario, ritengono che l’unica possibile alternativa ad un mondo in cui le realtà nazionali sono ormai tramontate sia la riscoperta della dimensione locale, intesa nella sua accezione più radicale di democrazia diretta, in cui ogni singolo cittadino è chiamato a riflettere e deliberare in modo cooperativo sul futuro proprio e della collettività.
Alla domanda su quale delle due forme sia maggiormente auspicabile, ammesso e non concesso il fallimento della democrazia rappresentativa, Luigi Pellizzoni si mostra più propenso a cercare una terza via: «La natura ci insegna che, in generale, non esiste mai un’unica soluzione che va bene per tutto. La mia personale visione è che si debba propendere per la tutela della diversità. Nel caso della politica, la struttura dei processi decisionali più adeguata dipende dal livello di generalità in riferimento al quale vanno prese le decisioni.
La mia impressione è che l’idea di una struttura tecnocratica globale – che è stata più volte adombrata, sulle orme della repubblica di Platone, come guidata da un gruppo di ottimati competenti a cui andrebbe delegato interamente l’onere di prendere decisioni per il bene collettivo – presenti problemi che, già sollevati al tempo di Platone, hanno conservato tutta la propria validità. La definizione del bene collettivo è una questione che la democrazia ha affidato alla discussione collettiva, e non alla decisione di qualcuno».
Tra l’altro, gli sviluppi della geopolitica internazionale suggeriscono che si stia andando in una direzione completamente opposta rispetto all’eventuale instaurazione di un governo globale. «Stiamo oggi assistendo a una nuova frammentazione in aree di influenza, ed è probabile che questo sarà lo scenario del futuro. Questo da un lato complica ulteriormente lo scenario, ma dall’altro potrebbe aprire nuove opportunità di collegamento tra il locale e il trans-locale».
«Io credo, però – conclude Pellizzoni – che il valore della democrazia non vada mai dimenticato, e che dobbiamo continuare a interrogarci su quale sia il mondo che vogliamo, senza lasciare l’ultima parola a dei presunti illuminati. Mi permetto dunque di perorare, pur con tutti i limiti che conosciamo, la causa della democrazia – che potrebbe anche essere trasformata in democrazia deliberativa, su scale abbastanza ridotte da rimanere gestibili, ma che dovrà inevitabilmente concretizzarsi, almeno in parte, in forme rappresentative».