C’è una “guerra fredda” all’interno della Nato che preoccupa e imbarazza, per i toni, per i modi che tutto suggeriscono fuorché il desiderio di costruire e perseguire un intento comune, come imporrebbe il trattato del Patto Atlantico. I protagonisti principali sono Turchia e Grecia, impegnati da mesi in una contesa marittima, innescata unilateralmente da Erdogan che reclama un “diritto” di trivellazione in area di competenza greca. Tutta colpa della morfologia geografica e di quegli isolotti greci che si trovano a un soffio, meno di due chilometri, dalle coste turche. Colpa delle ZEE (Zone Economiche Esclusive) che garantiscono allo Stato costiero (dunque in questo caso alla Grecia, ma la Turchia contesta l’attribuzione di territorialità) diritti sovrani in un raggio di 200 miglia marine per lo sfruttamento delle risorse naturali. Colpa, soprattutto, di quell’immenso tesoro di gas naturale che lì sotto si trova e che fa gola a molti, spingendo gli stati a minacciarsi pur di ottenere un ruolo, definiamolo così, di partecipazione attiva. Così Ankara continua, da mesi, a inviare in acque greche navi, militari e non, con la scusa di effettuare “attività antisismiche”: nessuna trivellazione ovviamente, soltanto provocazioni, sconfinamenti (anche aerei) per testare il livello di risposta del governo di Atene. Che al principio ha risposto con parole ferme («La Turchia cerca di destabilizzare l’intero Mediterraneo orientale: non ci metteremo a trattare sotto minaccia», ha dichiarato il premier Mitsotakis), ma che poi è passata alle vie di fatto, annunciando un’operazione di riarmo (grazie all’appoggio esplicito del presidente francese Macron) con l’acquisto di 18 caccia Rafale e di 4 nuove fregate francesi, andando così a rinforzare il proprio apparato di sicurezza nell’Egeo.
L’attesa della Nato
La Turchia provoca, la Grecia attende. E nell’attesa tenta di colmare, come può, la sproporzione delle forze in campo (militari, economiche e geopolitiche: la Turchia è il secondo esercito più “pesante” dell’Alleanza Atlantica, con circa 400mila effettivi). Dall’inizio di quest’ultima crisi, Atene continua a invocare un intervento esplicito della Nato stessa o dell’Unione Europea, che a oggi non si è minimamente manifestato. Per motivi differenti. La Nato nasce sulla base di un patto politico-militare difensivo rispetto a un nemico esterno: non esistono clausole o procedure definite per affrontare situazioni di controversia tra gli Stati membri (come nel 1974, quando la Turchia invase Cipro e soltanto l’intervento degli Stati Uniti riuscì a imporre il cessate il fuoco). E al suo interno c’è tutt’altro che unità d’intenti: lo scorso novembre Macron aveva parlato di «morte cerebrale della Nato» riferendosi al ruolo turco nella guerra in Siria, suscitando le ire di Erdogan e della Germania (secondo un retroscena pubblicato dal New York Times, Angela Merkel avrebbe dichiarato: «Capisco il desiderio di una politica di rottura, ma io devono ogni volta raccogliere i cocci»).
Al momento l’unica strada percorribile dall’Alleanza è la mediazione: colloqui tecnici sono in corso tra le delegazioni militari di Turchia e Grecia presso la presidenza della Nato, a Bruxelles, con l’obiettivo di stabilire “canali di comunicazione utili a evitare nuovi incidenti nel Mediterraneo orientale”. In che vuol dire attesa degli eventi, di nuovo. Perché la situazione è talmente delicata che, a livello politico e tattico, qualsiasi mossa potrebbe rivelarsi fatale. Tradotto: l’obiettivo è evitare qualunque atto che possa spingere la Turchia a uscire dalla Nato, lasciando sguarnito il fianco mediorientale. Ma non è da escludere che prima o poi Erdogan possa decidere di farlo autonomamente, qualora dovesse ritenere conveniente, anche solo per se stesso, una mossa del genere.
La mediazione dell’Unione Europea
Intanto l’Unione Europea deve ancora prendere una posizione ufficiale su quanto sta accadendo nel Mediterraneo orientale. L’unico che si è esposto in prima persona è il presidente francese Macron che da tempo ha messo la Turchia nel mirino: l’intervento di Erdogan in Libia a sostegno di Al Serraj (che peraltro ha appena annunciato le sue imminenti dimissioni) ha scombinato i piani dell’Eliseo che sosteneva l’avanzata del generale Haftar. Perciò dall’Eliseo continua il pressing sull’Europa affinché alla Turchia siano stabilite sanzioni esemplari: «La Turchia ha violato la sovranità della Grecia e di Cipro», ha dichiarato in più occasioni Macron. «Non è accettabile che lo spazio marittimo di uno Stato membro della nostra Unione venga violato o minacciato. Chi vi contribuisce deve essere sanzionato». Lo stesso Macron ha poi convocato pochi giorni fa ad Ajaccio, in Corsica, i 7 paesi che aderiscono a Euromed (Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Cipro e Malta) proprio per coordinare una risposta unitaria alla strategia aggressiva della Turchia in materia di sfruttamento energetico del Mediterraneo. Macron non ha usato mezzi termini: «La Turchia non è più un nostro partner. I comportamenti del governo del presidente Erdogan sono inammissibili», annunciando un rafforzamento della presenza militare francese nella regione. Scatenando così la reazione turca, che ha accusato la Francia di “comportarsi da gangster”. Mentre Erdogan è passato direttamente alle minacce: «Macron avrà molti problemi con me, personalmente. Non deve scherzare con la Turchia».
Ma le sanzioni immediate per Ankara che Macron chiedeva sono state, per ora, messe in stand by. Nel documento finale del Med7 i leader dichiarano di essere pronti “a sostenere sanzioni dell’Unione Europea contro la Turchia se Ankara si dimostrerà indisponibile al dialogo dopo l’inasprirsi dei contenziosi marittimi”. Se ne parlerà, con tutti i crismi dell’ufficialità, al Consiglio europeo in programma il 24 e 25 settembre. Anche l’Alto rappresentante dell’Unione Europea, Josep Borrell, parlando alla plenaria del Parlamento Europeo, ha sottolineato la necessità di «riannodare il dialogo» con Ankara. «Ci troviamo davanti ad uno spartiacque nelle nostre relazioni con la Turchia», ha precisato Borrel. «E le soluzioni non arriveranno da una relazione sempre basata sullo scontro. La Turchia è un vicino importante per l’Ue ed è un partner chiave su molte aree come ad esempio la migrazione. Ma le nostre relazioni sono a un bivio ed è giunto il momento per i nostri leader di prendere decisioni difficili. Le sanzioni? Non c’è ancora un accordo».
I gasdotti della discordia
Idealmente Macron ha voluto mandare un avvertimento a Erdogan e segnare con una linea rossa un confine che difficilmente, per il “sultano”, sarà possibile oltrepassare, almeno non senza conseguenze. Più che principi ci sono interessi da tutelare. Il nervosismo della Turchia nasce dall’accordo, firmato lo scorso capodanno, da Grecia, Cipro e Israele per la realizzazione di EastMed, un gasdotto sottomarino che potrebbe portare il metano dai giacimenti del Mediterraneo orientale fino all’Adriatico. Accordo sostenuto dall’Egitto e dall’Italia e fortemente osteggiato da Turchia e Russia, perché taglierebbe fuori l’attuale linea di approvvigionamento, il gasdotto trans-anatolico Tanap, che dall’Azerbaijan, passando proprio per la Turchia, rifornisce Grecia e Italia. Perciò Ankara continua a inviare le sue navi nelle acque greche e cipriote, violando le norme internazionali: per minacciare, per pretendere un ruolo anche nel caso il nuovo gasdotto dovesse essere realizzato. E per avere accesso a giacimenti che non le spettano. Erdogan sta mostrando i muscoli. La Francia sta rispondendo per le rime, mettendosi idealmente alla testa di un’Unione Europea che di nuovo balbetta e mostra tutte le sue fragilità di fronte a una palese violazione delle regole. Intanto la Germania è impegnata in una profonda operazione di mediazione, anche perché l’argomento in ballo non è soltanto quello energetico. C’è la sicurezza internazionale, l’argine ai movimenti terroristici. E la minaccia del controllo dei flussi migratori: la Turchia attualmente ricopre un ruolo chiave in Siria e in Libia. Se l’Europa dovesse decidere sanzioni nei confronti di Erdogan, le ritorsioni potrebbero essere assai gravi e di difficilissima gestione.
Il ruolo degli Stati Uniti
Più defilata la posizione degli Stati Uniti, che durante l’amministrazione Trump hanno fatto più di un passo indietro nell’area mediorientale. Defilata, ma non assente. Prova ne sia l’annuncio della revoca temporanea dell’embargo sulla vendita di armi a Cipro (imposto nel 1987 dagli Stati Uniti), a partire dal prossimo 1 ottobre. La revoca durerà un anno, come spiegato dal segretario di Stato americano, Mike Pompeo, e consentirà la vendita di “articoli e servizi di difesa non letali”. Pompeo ha anche ribadito «il sostegno degli Stati Uniti a un accordo globale per riunificare l’isola», divisa nel 1974, quando le forze turche hanno invaso il Nord di Cipro in risposta al colpo di Stato greco-cipriota. Il che ha fatto infuriare Ankara, che in una nota del Ministero degli Esteri ha definito la decisione «incompatibile con lo spirito dell’Alleanza Atlantica». Lo stesso ministro degli Esteri aveva commentato così il voto del congresso americano, lo scorso dicembre: «La fine dell’embargo sulla vendita di armi alla Repubblica di Cipro provocherà una pericolosa escalation nella regione». E’ pur vero che Erdogan ha recentemente minacciato di chiudere, «se necessario», le basi americane in Turchia a Incirlik e Kurecik. Una sfida aperta, in risposta alla risoluzione approvata dal Senato degli Stati Uniti che aveva definito le morti degli armeni in Turchia come “genocidio”. Ancor prima, la Turchia era stata esclusa dal programma F-35 per aver acquisito i sistemi antimissile S-400 dalla Russia, che non fa parte della Nato. Secondo il quotidiano turco Daily Sabah il livello di scontro tra Stati Uniti e Turchia sarebbe vicino al punto di non ritorno, con gli Usa che starebbero ipotizzando un trasferimento della base americana di Incirlik alle isole greche.
Il “sovranismo esasperato” di Erdogan
Difficile immaginare quali saranno le prossime mosse. La strategia di Erdogan, stando agli ultimi avvenimenti, sembra interamente improntata sulla reazione d’impulso, muscolare, sprezzante, sulla difesa a tutti i costi (letteralmente) degli interessi nazionali e sul recupero di una sua autorevolezza interna, fiaccata anche dalle congiunture economiche negative di questi ultimi mesi. Una sorta di “sovranismo esasperato” che mal si accorda con le alleanze in corso (Nato e Unione Europea) e che colloca la Turchia su un perenne e pericolosissimo punto di rottura. Per quel che riguarda le trivellazioni nell’Egeo la situazione è ora in stallo. Dopo l’annuncio del riarmo della Grecia, la nave esplorativa turca “Oruc Reis” ha lasciato le acque greche ed è rientrata al porto di Antalya. Subito rimpiazzata dalla Yavuz, in una nuova “missione” che proseguirà fino al 12 ottobre. E Ankara ha contemporaneamente accusato la Grecia di aver “armato 18 isole”, tra le quali Chios, in violazione degli accordi internazionali (che evidentemente, per Erdogan, hanno valore a intermittenza) firmati a Losanna nel 1923. Mentre Atene continua a ribadire: «La principale divergenza tra Grecia e Turchia, la demarcazione dei confini marittimi, deve essere risolta davanti alla Corte internazionale di giustizia. Il dialogo con la Turchia potrà iniziare solo dopo la cessazione delle provocazioni». Insomma, la partita è tutt’altro che conclusa. La Turchia pretende un ruolo da protagonista, Grecia e Cipro difendono ciò che è loro, la Nato teme uno strappo a Est che non saprebbe come ricucire, l’Unione Europea teme, principalmente, un’invasione incontrollata di migranti. Al Consiglio Europeo del 24-25 settembre l’arduo compito di cominciare a immaginare una via d’uscita. Con la presidente von der Leyen che, almeno a parole, è stata categorica: «Niente giustifica le intimidazioni di Ankara nei confronti di Grecia e Cipro nella disputa sulle risorse energetiche».