SOCIETÀ
La crisi del mondo agricolo indiano, tra la disperazione dei contadini e l’esigenza di riforme
La coltivazione del riso nel Kerala, India. Foto: Nandhu Kumar/Unsplash
Il sistema agricolo indiano è un gigante dai piedi d’argilla, e le proteste che da mesi portano in piazza milioni di contadini ne sono la dimostrazione. Il risentimento e la preoccupazione che agitano gli agricoltori indiani nascono in reazione a tre leggi approvate, a settembre 2020, dalle Camere del Parlamento indiano (entrambe controllate con un’ampia maggioranza dal BJP, il partito del Primo ministro Narendra Modi), leggi che fanno parte di un esteso programma di riforma agraria.
Il tema – l’ammodernamento del sistema di produzione agricola del Paese – è molto delicato e controverso: l’agricoltura indiana, infatti, versa da decenni in condizioni drammatiche, nonostante il settore agricolo sia un elemento centrale dell’economia nazionale. Circa il 68% della popolazione (composta da 1,37 miliardi di persone nel 2019, e ancora in crescita) vive ancora in contesti rurali, e conta sull’agricoltura come fonte unica, o comunque primaria, di sostentamento; inoltre, il settore agricolo vale il 15% del Prodotto Interno Lordo indiano. La difficile situazione economica dei contadini, spesso costretti, per mantenersi, a contrarre debiti altissimi, che non sono in grado di ripagare, è causa di disperazione: secondo i dati del National Crime Records Bureau, nel 2019 si sono suicidati 10.281 agricoltori e 32.559 lavoratori agricoli giornalieri.
Al netto delle riforme proposte – temporaneamente bloccate da un pronunciamento della Corte Suprema, che ha anche istituito una commissione per ascoltare le richieste degli agricoltori e per fornire un parere esterno sulla questione –, il sistema agricolo indiano è oggi regolamentato da leggi antiquate, varate poco dopo la conquista dell’indipendenza e mai migliorate (l’Essential Commodities Act, una delle norme che Modi propone di riformare, risale al 1955). L’India è organizzata, sul piano amministrativo, in una federazione di Stati, ognuno dei quali dotato di un proprio parlamento e di un governo; tutti sono poi sottoposti al governo federale, con sede nella regione di Delhi. L’organizzazione del sistema agricolo riflette questa suddivisione dei poteri: la gran parte degli agricoltori – solitamente piccoli produttori, sparsi nelle centinaia di migliaia di villaggi rurali del paese – dipende direttamente dagli Agricultural Produce Market Committees (APMC) dei singoli stati, i quali comprano i prodotti all’ingrosso e li rivendono all’asta. Questi comitati statali furono istituiti per tutelare i produttori dai creditori e da eventuali altri intermediari della vendita dei prodotti agricoli, applicando a questi un prezzo equo – stabilito annualmente a livello nazionale dal Ministero dell’Agricoltura, che prima della semina dichiara il Minimum Support Price per alcuni prodotti ritenuti essenziali, tra cui i cereali – e assicurando l’acquisto delle derrate, per proteggere i contadini dalle fluttuazioni del mercato. Si tratta di un sistema economicamente in perdita, sovvenzionato dallo Stato centrale, che dovrebbe costituire una garanzia per i molti piccoli proprietari terrieri la cui produzione non supera di molto la sussistenza.
Foto: Nandhu Kumar/Unsplash
Questo sistema, nei decenni, ha mostrato molti limiti: innanzitutto, ha generato in India una frammentazione dei mercati, poiché obbliga contadini e allevatori a vendere solamente nello Stato in cui avviene la produzione; inoltre, l’obiettivo di tutelare i più poveri è fallito nella misura in cui il monopsonio esercitato dagli APMC dei singoli stati ha facilitato la formazione di una casta di intermediari il cui mantenimento ha determinato un aumento esponenziale dei prezzi di vendita, a causa del quale i contadini si sono paradossalmente impoveriti. Infine, anche i sussidi statali sono stati sfruttati a vantaggio di pochi: la Food Corporation of India (FCI), ente governativo nazionale che acquista dai diversi Stati, ai prezzi minimi stabiliti annualmente, i cereali ritenuti fondamentali (riso e grano) per poi rivenderli a prezzi stracciati alle fasce più povere della popolazione, distribuisce i propri sussidi non equamente, ma a seconda della potenza delle lobby statali: ne consegue che stati come il Punjab e l’Haryana (dove, infatti, le proteste e gli scioperi contro la riforma sono iniziati, e dove hanno registrato una maggiore partecipazione) riescono a vendere alla FCI circa il 25% dei propri raccolti di cereali, mentre stati poveri come il Bihar ricevono sussidi solo per il 2% del raccolto annuale.
Le riforme proposte dal governo di Modi tentano di risolvere questa situazione di stallo attraverso una generale liberalizzazione del mercato nazionale: nella pratica, gli APMC verrebbero eliminati, in tal modo decadrebbe l’obbligo di vendere soltanto nello Stato d’origine dei prodotti e diverrebbero superflue le figure degli intermediari, che in molti casi esercitano sui contadini (soprattutto sui più poveri) pressioni economiche spesso insostenibili. Ogni produttore diretto, grazie alla riforma del 2020, dovrebbe poter vendere liberamente in ogni mercato, fisico e online, senza alcuna necessità di intermediazione.
Questa soluzione, apparentemente valida, nasconde in realtà – secondo i contadini che protestano da mesi, e secondo molti analisti nazionali e internazionali – diverse criticità. Il rischio principale, sostengono i detrattori delle tre leggi approvate a settembre, è che questa liberalizzazione offra un forte vantaggio competitivo alle grandi aziende, a discapito, ancora una volta, dei piccoli produttori. L’economista R. Ramakumar, docente al Tata Institute of Social Sciences di Mumbai, in un’intervista rilasciata al quotidiano IndiaSpend spiega alcune delle ragioni del proprio dissenso: «Gli investimenti pubblici per implementare i sistemi di deposito e stoccaggio delle fattorie sono da anni stagnanti, se non in calo. Il governo lascia spazio, in questo settore, agli investimenti di grandi attori privati, come le multinazionali dell’industria agricola. Il governo sostiene che sia l’Essential Commodities Act (ECA) a favorire gli investimenti dei privati, e per questo motivo sostiene la necessità di modificare questa legge. Credo che questo punto di vista sia del tutto errato nel contesto indiano, prevalentemente composto da piccoli agricoltori. La riforma dell’ECA [...] rischia di indebolire il potere di contrattazione dei piccoli agricoltori, e aumentare la stretta del grande agribusiness sul mercato agricolo».
I problemi che attanagliano il sistema agricolo del Paese, secondo l’economista indiano, sono ben più radicati, e hanno un’origine strutturale: «Il fallimento dell’India nel garantire un mutamento strutturale della sua economia è il risultato del fallimento dello Stato nel trasformare le aree rurali, dopo l’indipendenza, attraverso il ricorso a riforme agrarie, a un’educazione universale, a investimenti pubblici. [...] Ogni paese che ha raggiunto il successo in campo economico ha vissuto una transizione agraria, nelle sue fasi iniziali di sviluppo. Per l'India non è stato così. L'assenza di una trasformazione agraria in India ha fatto sì che anche il mercato interno dei beni industriali rimanesse poco sviluppato. Così, i fallimenti nello sviluppo agricolo e industriale in India si sono intersecati in un circolo vizioso».
L’intervista completa a Ugo Tramballi. Montaggio di Elisa Speronello
«L’agricoltura ha sempre vissuto di sovvenzioni: questo sistema garantiva un livello di produzione minimo, che adesso non è più sufficiente», spiega Ugo Tramballi, giornalista del Il Sole 24 ore e Senior Advisor per l’ISPI, a Il Bo Live. «L’economia e la popolazione indiane sono cresciute, le esigenze sono cambiate e la produzione agricola segue metodi ormai inadeguati a soddisfare l’attuale domanda di mercato. Al di là della produzione diretta, a mancare, in India, è un efficiente sistema di trasformazione dei prodotti e una rete infrastrutturale adeguata».
Un altro tasto dolente di questa riforma agraria, sottolinea ancora Tramballi, consiste nella modalità in cui è stata portata avanti: «Oggi, al suo secondo mandato – alle elezioni di circa due anni fa il partito del Primo ministro, il BJP, ha riportato una vittoria schiacciante – Modi conferma una modalità di governo che, mutatis mutandis, potrebbe essere assimilata al modello di “democrazia illiberale” del premier ungherese Viktor Orbán. Questo modus operandi è emerso con evidenza nel caso della riforma agraria, che è stata approvata senza ascoltare le parti coinvolte e senza essere sottoposta ad una discussione pubblica di respiro nazionale, nonostante il tema interessi larga parte della popolazione indiana».
«Al momento la riforma è sospesa, e pochi giorni fa, in occasione della presentazione del bilancio per l’anno 2021, la ministra delle Finanze ha dichiarato che il governo è pronto a ridiscutere l’intero pacchetto di riforme sull’agricoltura. Considerata anche la violenta repressione, da parte delle forze di polizia controllate direttamente dal Ministero dell’Interno, delle manifestazioni pacifiche organizzate dai contadini a Nuova Delhi nei mesi scorsi, dubito – argomenta Tramballi – che il governo Modi sia disposto a ridiscutere le leggi finora presentate. D’altra parte, come sostengono i manifestanti, finora i contadini scesi in piazza sono solo l’1%: se tutti prendessero parte alle proteste, si potrebbe bloccare l’intero Paese». Stiamo assistendo a un gioco di forza il cui esito è ancora da scrivere.