UNIVERSITÀ E SCUOLA

Dottorato, un percorso irto di gioie e dolori

Su 6.320 dottorandi provenienti da tutto il mondo il 75% si direbbe soddisfatto della propria esperienza, ma circa il 36% avrebbe invece cercato aiuto per risolvere problemi di ansia e depressione che sembrerebbero derivare proprio dal percorso di studi. A prendere in esame “angosce e soddisfazioni” degli studenti in questa fase formativa è un sondaggio condotto e pubblicato recentemente da Nature, di cui si è parlato molto sulla stampa nei giorni scorsi.

Innazitutto qualche indicazione di metodo. La rivista scientifica conduce questo tipo di indagine ormai dal 2011. In questo caso è stata svolta in collaborazione con un’azienda di market research, utilizzando un questionario online di 56 domande rimasto attivo per sei settimane. Per aumentare la risposta in regioni specifiche precedentemente sottorappresentate, il sondaggio è stato tradotto in quattro lingue (cinese, portoghese, spagnolo e francese) oltre all'inglese. Gli intervistati che hanno fornito risposte “di scarsa qualità” sono stati rimossi dal set di dati, oltre a quelli con dati mancanti: su 14.260 risposte ricevute, dunque, ne sono state selezionate 6.320. Oltre un terzo delle risposte (36%) proviene dall'Europa, il 28% dall'Asia, il 27% dall'America settentrionale o centrale e il 9% dall'Africa, dal Sud America e dall'Australasia. Circa 700 risposte sono arrivate dalla Cina. Il 77% dei dottorandi che ha risposto ai quesiti proposti ha un’età compresa tra i 25 e i 34 anni.

Secondo i risultati dell’indagine condotta da Nature, ciò che preoccupa maggiormente gli studenti di dottorato sarebbero innanzitutto le incerte prospettive di carriera e la difficoltà nel mantenere un buon equilibrio tra lavoro e vita privata. Il 76% degli intervistati dichiarerebbe di lavorare al proprio PhD più di 40 ore alla settimana. Problema particolarmente avvertito da quei dottorandi che hanno famiglia e figli o devono prendersi cura di un adulto. Le risposte mettono in evidenza nel 50% dei casi la ‘cultura’ nelle università di fermarsi a lavorare fino a tardi e in certi casi anche di notte.

Altro motivo di apprensione è la difficoltà a ottenere finanziamenti o sovvenzioni per il proprio lavoro (problema avvertito soprattutto in Africa) e questo spingerebbe alcuni a cercare un’occupazione che permetta di vivere. Stando ai dati, circa uno studente su cinque avrebbe un altro impiego, la gran parte proprio per arrivare a fine mese (53%).

Emerge poi la dinamica del “publish or perish”. Una carriera di successo è il risultato di una serie di “misurazioni” che includono pubblicazioni, citazioni, finanziamenti. Di tali aspetti deve tener conto un giovane che muove i primi passi nell’ambito della ricerca accademica, ma una pressione del genere può ingenerare stress. A ciò si aggiungano le difficoltà che possono insorgere nell’ambiente di lavoro. Un quinto degli intervistati dichiarerebbe ad esempio di essere stato vittima di bullismo, nel 48% dei casi da parte del proprio supervisore e nel 38% da parte di altri studenti. Un altro 20% sosterrebbe di aver subito discriminazioni o molestie durante il periodo di dottorato: si tratterebbe soprattutto di discriminazioni di genere (39%) e di razza (33%).

Se queste sono le ragioni che possono originare ansia e stress, chi ha sentito la necessità di cercare aiuto (circa un terzo degli intervistati) si è rivolto alle strutture interne alla propria università nel 43% dei casi: il 26% lo avrebbe trovato utile, mentre il 18% non si è sentito supportato.

Questi alcuni risultati di massima, a fronte dei quali però c’è chi non nasconde qualche perplessità. “Da psichiatra che ha partecipato a vari studi di popolazione nel campo dell’epidemiologia psichiatrica – sottolinea Giovanni De Girolamo dell’Irccs Fatebenefratelli – nutro molti dubbi su ‘metodologie diagnostiche’ basate sulle risposte a semplici questionari online”. Il campione, osserva, è ultra-selezionato: nonostante il sondaggio sia stato ampiamente pubblicizzato hanno risposto solo 14.260 persone e in questo gruppo gli “stressati” potrebbero essere sovra-rappresentati per un ovvio processo di auto-selezione. “Di questi sono stati però utilizzati solo 6.320 questionari, meno della metà, e non è chiaro il motivo dell’esclusione di oltre il 50% dei dati raccolti”. Secondo lo psichiatra, inoltre, si dovrebbe tener conto dell’estrema variabilità degli ambienti accademici in cui si conseguono i dottorati: ottenere il diploma ad Harvard, sottolinea, è cosa diversa dal conseguirlo in un’università italiana o rumena, e quindi lo stress correlato è altrettanto diverso.

Rossana De Beni, responsabile del Servizio di assistenza psicologica (Sap) dell’università di Padova rivolto agli studenti, ritiene a sua volta che i dati di Nature siano interessanti, ma che l’interpretazione dei risultati sia un po’ allarmistica. Ciò nonostante, non si esime dal porre in evidenza alcuni aspetti di un certo tipo di percorso che talora potrebbero generare malessere.

“Il nostro è il lavoro più bello del mondo, ma lo studio può coinvolgere così tanto che – mi passi il termine – può anche diventare “rischioso”. Quotidianamente ci viene chiesto di confrontarci e di mettere a frutto le nostre capacità cognitive e questo ci pone continuamente in discussione. Nello studio è coinvolto tutto il sé, sia la cognizione fredda (l’intelligenza, la memoria, il problem solving, i processi decisionali), sia la cognizione calda (gli affetti, le emozioni, la motivazione). Il rischio è di puntare troppo sugli ‘aspetti freddi’”. Secondo la docente un ricercatore non può pensare di essere solo una mente che pensa, elabora e produce articoli di ricerca.

L’ambiente accademico è altamente stimolante, ma può diventare anche molto competitivo e di conseguenza causare stress. Esiste una forte spinta alla produttività che richiede un impegno costante ma, secondo Rossana De Beni, è necessario trovare dei momenti in cui liberare la mente da questo stimolo continuo. Perché, in caso contrario, la persona può sentirsi troppo pressata e rispondere con fragilità, pensieri negativi o con l’ossessività.

“Se la nostra working memory (dove avvengono i processi cognitivi di comprensione, memorizzazione, scoperta e problem solving) è occupata da preoccupazioni, non abbiamo la serenità e lo spazio mentale per dedicarci a quello che è il nostro scopo principale. Al Sap noi vediamo sempre più studenti e dottorandi che fanno fatica, perché hanno mille pensieri e non riescono ad autoregolare la mente. Questo può dipendere da questioni strutturali, da differenze individuali o da un ambiente molto competitivo”. Oltre al Sap, la docente ricorda anche la presenza all’università di Padova del Servizio di assistenza psicologica per dipendenti universitari (Apad), cui ci si può rivolgere.

I dottorandi, come si evince dai dati di Nature, lavorano molte ore. “Ciò – continua – dipende anche dal tipo di impiego: quando si è coinvolti in un esperimento o in una ricerca, non si può staccare, si devono risolvere i problemi. È una professione che può piacere moltissimo a chi l’ha scelta, ma non siamo automi e l’eccessivo coinvolgimento può rischiare di portare anche a un esaurimento o a un attaccamento indebito al lavoro che può sfociare in dipendenza”.

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