SCIENZA E RICERCA

Dove si buttano le bioplastiche?

Secondo il progetto di ricerca Bioplastics Europe, il termine ‘bioplastica’ è fuorviante per via della sua imprecisione, dovuta all’assenza di una definizione chiara. Sarebbe invece più corretto parlare di plastiche a base biologica e di plastiche biodegradabili, ponendo l’accento sulle caratteristiche che qualificano l’inizio e la fine del ciclo di vita di questi materiali.

In effetti, le differenze esistenti tra i diversi materiali che vengono genericamente categorizzati come ‘bioplastiche’ sono molte. Ad esempio, non tutte le bioplastiche sono costruite a partire da materie prime di origine vegetale o animale; al contrario, molte bioplastiche condividono con le plastiche tradizionali l’origine fossile.

Bioplastiche: una tassonomia

Secondo European Bioplastics, l’associazione che rappresenta i produttori di bioplastiche in Europa, possiamo distinguere tre macro-categorie di “bioplastiche”:

  • le cosiddette “plastiche vegetali”, materiali di origine biologica ma non biodegradabili;
  • le plastiche che sono sia bio-based sia biodegradabili;
  • le plastiche derivanti da fonti fossili (non rinnovabili) ma biodegradabili.

Appare evidente, dunque, che l’origine ‘organica’ o fossile non è sufficiente per predire con certezza quale sia la modalità di smaltimento di questi materiali. Anche in questo caso, infatti, le possibilità sono diverse: ad esempio, quando scegliamo un prodotto al supermercato perché siamo attratti dalle promesse di sostenibilità del packaging, dobbiamo ricordare in primo luogo che una bioplastica non è necessariamente biodegradabile; inoltre, bisogna tenere presente che esistono diversi modi per smaltire questi prodotti, ed è perciò importante fare attenzione alle istruzioni per lo smaltimento che sono (o dovrebbero essere) riportate sulla confezione.

La gestione dei processi di smaltimento è complessa, e negli ultimi anni l’Unione Europea ha affrontato ripetutamente il nodo della gestione e dello smaltimento di plastiche e bioplastiche con l’obiettivo di aumentare la sostenibilità della filiera e ridurne l’impatto negativo sull’ambiente e sulla salute umana.

Ad oggi, tuttavia, la ricerca sulle bioplastiche è ancora agli albori, e mancano soluzioni in grado di aumentare la produzione su larga scala, soppiantando l’uso delle plastiche tradizionali. In un’interessante ricerca condotta dallo UCL Plastic Waste Innovation Hub e pubblicata sulla rivista scientifica Frontiers in Sustainability, i ricercatori spiegano la complessità di questa filiera, e la conseguente difficoltà esperita dai consumatori nel tentativo di orientarsi verso scelte sostenibili. A causa dell’inadeguatezza dei sistemi di riciclaggio, ad esempio, molte bioplastiche biodegradabili o compostabili non possono essere processate adeguatamente, e il loro destino è spesso la discarica o l’incenerimento.

Biodegradabile e compostabile

Le bioplastiche biodegradabili sono, in generale, materiali che possono essere degradati attraverso processi biologici; questa definizione non specifica però alcuni fattori essenziali, come il tempo e le condizioni ambientali necessarie perché la degradazione si verifichi – informazioni fondamentali per la programmazione dei procedimenti industriali. Quando si parla di materiali compostabili, invece, ci si riferisce a una proprietà più specifica: si tratta – sintetizzano gli autori della ricerca – di un materiale «che può subire una degradazione biologica in un’are di compostaggio in un tempo paragonabile ad altri materiali riconosciuti come compostabili, e che [alla fine del processo] non lascia residui visibili o tossici».

Il compostaggio può essere casalingo o industriale. Quest’ultimo, poi, può essere condotto attraverso diversi processi: nel compostaggio aerobico, i microrganismi coinvolti consumano ossigeno per degradare i rifiuti organici, e rilasciano come scarti anidride carbone, calore, acqua, e compost. Nel compostaggio anaerobico (anche definito gassificazione), invece, la degradazione da parte dei microorganismi avviene in assenza di ossigeno, e come prodotto di scarto abbiamo i biogas (anidride carbonica e metano) e il digestato, utilizzato come fertilizzante.

Il compostaggio casalingo è un processo più difficile da regolamentare: le condizioni ambientali non sono strettamente controllate, la digestione può essere aerobica e anaerobica, e il prodotto risultante non può essere riconosciuto legalmente come fase finale del rifiuto. Nonostante questo, questo genere di pratiche è incoraggiato, dal momento che può contribuire in modo significativo a ridurre la quantità di rifiuti da smaltire su scala industriale.

Il ruolo del consumatore: un esperimento di citizen science

Per comprendere fino a che punto i comuni cittadini riescono a districarsi nella complessità della gestione del ‘fine vita’ di questi materiali, i ricercatori dello UCL hanno realizzato un ampio esperimento di citizen science. Condotto in Gran Bretagna tra il 2019 e il 2021, l’esperimento ha coinvolto, a diverso titolo, 9.701 cittadini inglesi, che vi hanno partecipato attraverso test riguardanti le loro abitudini e/o attraverso un esperimento pratico di compostaggio casalingo delle bioplastiche da loro acquistate.

I dati raccolti nel corso dei due anni di lavoro e presentati nell’articolo apparso su Frontiers in Sustainability sono molto interessanti, e mettono in luce sia le lacune di comunicazione circa il corretto smaltimento di questi rifiuti, sia l’inadeguatezza che molti dei materiali in commercio hanno dimostrato per quanto riguarda la degradabilità.

Innanzitutto, gli autori sottolineano che, nonostante il campione che ha partecipato al progetto si sia dimostrato molto attento alla questione del riciclo e corretto smaltimento dei rifiuti, risultando perciò poco rappresentativo della società inglese, in molte occasioni le bioplastiche sono state smaltite in modo errato nel corso dell’esperimento (ad esempio, sono stati inserite nel sistema di compostaggio casalingo prodotti destinati alla biodegradazione industriale). Questo dato è stato interpretato dai ricercatori come sintomo di «confusione sull’etichettatura e l’identificazione delle plastiche adatte al compostaggio domestico».

Un secondo dato interessante riguarda il risultato dell’esperienza di compostaggio in casa. Gli esiti, infatti, sono stati tutt’altro che soddisfacenti: nel 55% delle osservazioni finali, i partecipanti riportavano un bassissimo livello di degradazione dei prodotti, ancora chiaramente visibili; nell’11% è stata riportata la presenza di parti piccole, ma ancora visibili; nel 34% dei casi, infine, i prodotti erano dissolti (oppure non individuati).

Inadeguatezza

In realtà, quello sulla sostenibilità delle bioplastiche è un dibattito falsato. Come giustamente evidenziano gli autori della ricerca, infatti, «l’idea che un singolo materiale possa essere sostenibile è un equivoco comune. Solo un sistema di produzione, raccolta e trattamento di un materiale può essere sostenibile». Il punto è che, nel Regno Unito come in molti altri paesi – europei e non solo – manca un sistema scalare di stoccaggio e lavorazione di questi rifiuti, che dunque finiscono troppo spesso in discarica o nell’inceneritore, nonostante la loro potenziale riciclabilità.

Sono necessari ulteriori interventi legislativi sia per migliorare e rendere più accessibile al pubblico l’etichettatura di questi materiali, sia per regolamentare la produzione della varietà di bioplastiche attualmente in commercio e la loro gestione.

Le bioplastiche sono, in potenza, un ottimo alleato per ridurre l’abuso di plastiche tradizionali; ma è essenziale accertarsi che il loro impatto ambientale sia minimo, e che la loro gestione sia disciplinata in modo chiaro, coinvolgendo produttori, commercianti e consumatori in tutti i passaggi del ciclo di vita del prodotto.

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