SOCIETÀ

Le ferite degli Stati Uniti: dall'emergenza sociale alla crisi sanitaria ed economica

Sette americani su dieci ritengono che il paese stia andando “nella direzione sbagliata”, secondo l’ultimo sondaggio realizzato dal portale online Politico. Un drastico monito per il presidente Trump, mentre gli Stati Uniti bruciano di rabbia e di rancore dopo l’omicidio di George Floyd, 46 anni, afroamericano, soffocato il 25 maggio scorso da un agente di polizia a Minneapolis. Un’altra analisi rileva che il 64% degli adulti statunitensi condivide le proteste che stanno dilagando, violente e incontrollate nonostante i coprifuoco, in quasi tutti gli Stati dell’Unione, mentre più della metà degli intervistati (55%) dichiara di non approvare la politica di Trump. Che nel frattempo ha esortato sindaci e governatori a reprimere con fermezza le rivolte, minacciando di invocare dopo 28 anni l’Insurrection Act per schierare truppe federali negli Stati: «Mobiliterò tutte le risorse federali e locali, civili e militari, per proteggere i cittadini rispettosi della legge. E se una città si rifiuterà di agire come è necessario per difendere i cittadini e le proprietà dei suoi residenti, schiererò l’esercito degli Stati Uniti e risolverò velocemente il problema per loro». Una decisione d’impeto che potrebbe minare definitivamente l’immagine di Trump. Perfino il Pentagono s’è schierato contro: «L’opzione di utilizzare le forze di servizio attive in un ruolo di contrasto dovrebbe essere usata solo come ultima risorsa, e solo nelle situazioni più urgenti e terribili», ha dichiarato il ministro della Difesa Mark Esper. «E al momento non ci troviamo in una di quelle situazioni». Una spaccatura senza precedenti.

Emergenza sociale, sanitaria, economica

Il presidente americano è sotto pressione su più fronti: quello sociale, quello sanitario (i contagiati da Covid-19 sono appena al di sotto di quota 2 milioni), quello economico (con una devastante recessione aggravata dai ritardi con cui gli aiuti vengono erogati), quello internazionale (i rapporti con la Cina sono sull’orlo di una nuova “guerra fredda”). E reagisce da par suo, a modo suo, utilizzando il suo linguaggio e i suoi modi da “aspirante gangster” (la definizione è di Robert De Niro). Mentre a novembre dovrà giocarsi la rielezione, con i sondaggi che danno il democratico Joe Biden in vantaggio di 10 punti.

Potrebbe sembrare l’orlo del baratro per il presidente «più razzista della storia americana», come lo definì lo scrittore Joe Lansdale all’indomani della sua elezione, nel 2016. E probabilmente sarà così. Ma Trump è un politico anomalo, umorale, gradasso, poco incline ai tatticismi, capace di scommettere tutto, a maggior ragione se vede la sua barca colare a picco. Ha scelto la strada della fermezza, dell’inflessibilità. Vuol cavalcare l’onda delle proteste per riaffermare rigore e ordine, temi assai cari non soltanto ai repubblicani, ma ancor di più ai suprematisti che lo sostengono fin dalla sua prima candidatura. Cerca un’impennata della sua leadership, costi quel che costi, per restare a galla. Così si moltiplicano gli episodi di repressioni violente da parte della polizia: cariche indiscriminate, Suv lanciati contro i dimostranti, spray al peperoncino e gas lacrimogeni. Contro i residenti di Minneapolis, che dalle verande delle loro case osservavano sfilare i dimostranti (qui il video), sono stati sparati proiettili di vernice. Il (tardivo) arresto di tutti gli agenti coinvolti nell’omicidio Floyd (per tutti la cauzione è stata fissata a un milione di dollari) non è bastato a placare gli animi. Il bilancio, in continuo aggiornamento, è di 3 morti e circa diecimila arrestati. Anche la Casa Bianca è finita sotto assedio, con il presidente (che poi ha smentito: a chi credere?) costretto a rifugiarsi per qualche ora in un bunker sotterraneo, per poi far innalzare un muro a protezione della residenza presidenziale. Scrive Stephen Collinson, della Cnn: «Il Presidente, scegliendo di incitare la divisione anziché curarla e imponendo le forze di sicurezza federali ai manifestanti, sta lacerando le cicatrici sociali per far resuscitare una presidenza umiliata da una pandemia e un disastro economico. E sembra pronto a fomentare lo scontro tra ordine e caos».

Le infiltrazioni dei suprematisti bianchi

Trump rilancia con i suoi soliti slogan frettolosi: «Chi protesta è un terrorista», dichiara con piglio imbronciato. Naturalmente è una menzogna: ci sono studenti, appartenenti a movimenti come “Black Lives Matter” e “Naacp” (la “National Association for Advancement of Colored People”), a gruppi antirazzisti come “Showing Up for Racial Justice”, a sindacati, ma ci sono anche migliaia di americani che, senza alcuna affiliazione a gruppi organizzati, hanno deciso di manifestare pubblicamente tutto il loro sdegno per le violenze e le discriminazioni continuano a essere inflitte alla comunità nera. Il problema è che in queste manifestazioni è molto semplice infiltrarsi. Così i dimostranti si trovano spesso tra due fuochi: la polizia da un lato, gruppi di facinorosi che puntano a creare scontri e disordini dall’altro. Gruppi della destra più radicale e della sinistra estrema, neonazisti, anarchici. E suprematisti bianchi, che  «stanno cercando di trarre vantaggio da una crisi nazionale per rilanciare la loro azione violenta», stando a un rapporto pubblicato pochi giorni fa dall’Adl (Anti-Defamation League). Pochi giorni fa l’Adl (Anti-Defamation League) ha pubblicato un rapporto in cui spiega che varie sigle di suprematisti bianchi «stanno cercando di trarre vantaggio da una crisi nazionale per rilanciare la loro azione violenta», utilizzando un falso account Twitter (@Antifa_US) per incitare alla violenza spacciandosi come appartenenti al movimento Black Lives Matter. Sembra di essere tornati agli anni ’60, come se tra Martin Luther King e la presidenza di Obama nulla fosse accaduto. Qui un rapporto sull’enorme abuso di violenza da parte della polizia nei confronti degli afroamericani. Sono trascorsi 54 anni da quel 19 giugno 1964, quando il Senato degli Stati Uniti approvò il Civil Rights Act, che abrogò, da un punto di vista legale, la discriminazione razziale in America. Non si direbbe.

Dal Pentagono a Obama, a Bush: tutti contro il Presidente

Sull’emergenza sociale Trump sta davvero rischiando di spaccare il paese. Le proteste non sono soltanto nelle strade, ma si stanno insinuando nelle istituzioni (come al Pentagono) e nella politica. Significativo l’intervento del capo della polizia di Houston, Art Acevedo, che in un’intervista alla Cnn si è rivolto al presidente usando toni inusuali: «Parlo a nome dei capi della polizia di questo Paese: per piacere, se non ha qualcosa di costruttivo da dire, tenga la bocca chiusa perché sta mettendo uomini e donne di meno di vent’anni a rischio. Faccia come Forrest Gump e stia zitto». Ma sono molti i casi di “insubordinazione”: dagli agenti inginocchiati in moltissime città in segno di rispetto per George Floyd (da New York a Washington, a Minneapolis, proprio ieri, al passaggio del feretro), allo sceriffo che in Michigan si è unito al corteo dei manifestanti. O come l’arcivescovo di Washington Wilton D. Gregory, che ha definito “sconcertante la strumentalizzazione politica di luoghi e simboli religiosi”, dopo che  lo stesso Trump aveva invocato l’esercito brandendo una Bibbia a favore di telecamera davanti alla chiesa episcopale di St John, a Washington. L’intervento dell’ex presidente Barack Obama dà il senso dello stupore per la tragedia in atto negli Stati Uniti: «Non ho mai visto una crisi così grave in vita mia. Dobbiamo usarla per provocare un risveglio di tutta la nazione», ha dichiarato Obama. Che si è poi rivolto ai più giovani: «Dobbiamo far sì che l’America stavolta cambi davvero. Voi giovani, abbiate il coraggio di essere scomodi per tutti noi. Impegnatevi, partecipate, andate a votare per costringere l’intera società a voltare pagina».

Perfino l’ex presidente George Bush, che idealmente si erge alla guida dei repubblicani dissidenti, si è schierato contro Donald Trump: «Io e Laura (la moglie) siamo angosciati dal brutale strangolamento di George Floyd e amareggiati dall’ingiustizia e dalla paura che strangola il nostro Paese. Abbiamo resistito all’urgenza di parlare, perché non tocca a noi predicare. È il tempo di ascoltare. È il tempo in cui l’America esamini i nostri tragici fallimenti per riconoscere le nostre forze di redenzione».

Un drammatico intreccio di emergenze

I disordini di questi giorni si intrecciano drammaticamente alle altre due emergenze in corso: quella sanitaria (con il ritiro degli Usa dall’Oms proprio mentre la pandemia dilaga) e quella finanziaria. Sul fronte sanitario basta un dato: il prezzo pagato in termini di vite umane è altissimo. Uno studio pubblicato dalla Columbia University ha stimato che con un lockdown anticipato anche solo di una settimana, Trump avrebbe potuto salvare 36mila vite. Invece ha negato, nicchiato, sottovalutato. E l'economia americana ha registrato il suo peggior trimestre (il primo del 2020) dalla recessione del 2008, con un Pil sceso al 4,8%. E un aumento dei prezzi dei generi alimentari del 16%. Nel mese di maggio 43 Stati hanno registrato aumenti record di disoccupazione, salita a livello nazionale al 14,7% (oltre 36 milioni di americani hanno richiesto sussidi a partire dalla metà di marzo). Il tasso di disoccupazione del Nevada è il peggiore del paese con il 28,2% (a marzo era del 6.9%). E la situazione potrebbe ancora peggiorare: il segretario al Tesoro, Steve Mnuchin, ha dichiarato che gli Stati Uniti potrebbero avvicinarsi a tassi di disoccupazione simili a quelli della Grande Depressione, quando raggiunse il 25%.

Un trilione di dollari per stabilizzare l’economia

Il presidente Trump e il Congresso degli Stati Uniti sono chiamati ora a prendere decisioni di vitale importanza. Come scrive il Washington Post: «Le crescenti proteste potrebbero intensificare una contrapposizione politica tra la Casa Bianca e il Congresso sull’opportunità di prolungare l’assistenza economica d’emergenza per milioni di americani. I politici dovranno decidere nelle prossime settimane se estendere le indennità di disoccupazione di emergenza a oltre 25 milioni di americani: miliardi di dollari in assistenza a stati e città, mentre continua a salire la tensione tra il presidente Donald Trump con governatori e sindaci. Se i legislatori non agiscono, circa tremila miliardi di dollari in aiuti federali di emergenza, utilizzati per stabilizzare l’economia, scompariranno nel prossimo trimestre».

Trump si muove in chiave elettorale. Teme i sondaggi: l’ultimo dice che è indietro di 8 punti nei tre “Swing States (Stati in bilico) Arizona, Ohio e Iowa. Teme che il suo competitor Joe Biden possa cavalcare l’onda d’indignazione e chissà, nominare vicepresidente una donna, magari afroamericana. Teme di essere spazzato via come il più inopportuno e imbarazzante presidente della storia americana. Così alimenta lo scontro e la divisione, una linea netta: legge e ordine da una parte, rivoltosi dall’altra, per cercare di rinsaldare il proprio consenso nelle aree rurali del paese. E poco importa se lascerà macerie dietro di sé. «Sta giocando con loro come non farebbe nessun altro presidente, repubblicano o democratico», scrive Politico. Che riporta anche una dichiarazione di Paul Maslin, sondaggista democratico: «Non puoi fare ciò che Nixon definiva negli anni ’60 “legge e ordine”. Non riuscirai mai così ad avere successo in America nel 2020».

L’America che si ribella sta gridando che non è questo il loro Paese. Che non è solo violenza, non è solo razzismo, non è solo armi. Che ci sono diritti da tutelare, da pretendere. Mentre cresce la protesta collettiva contro le violenze impunite della polizia, documentate da centinaia di video, compiute da alcuni agenti di polizia contro i manifestanti (a Buffalo due agenti di polizia sono stati sospesi dal servizio dopo aver colpito e spinto un manifestante di 75 anni, poi ricoverato in ospedale per un trauma cranico). Sono molte le immagini simbolo che testimoniano cosa sta accedendo in queste ore negli Stati Uniti. Quella di Jacob Frey, sindaco di Minneapolis, che piange in ginocchio davanti alla bara dell’uomo ucciso dalla polizia. Oppure Bernice King, figlia del reverendo Martin Luther King Jr., che ad Atlanta si è rivolta a 1.000 persone esortandole a non fermarsi «fino a quando non sarà mai più tolto il respiro dalla vita di qualsiasi nero o persona di colore in questa nazione e in tutto il mondo». I can’t breathe, non riesco a respirare, aveva implorato inutilmente George Floyd in quegli ultimi minuti della sua vita, per l’esattezza 8 minuti e 46 secondi, con un ginocchio sul collo e un fil di voce sempre più sottile. E, come lui, gli Stati Uniti sembrano avere un disperato bisogno di tornare a respirare.

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