CULTURA
A Gualdo Tadino il primo museo italiano dell’emigrazione, regionale e nazionale
Foto: Archivio/A3/contrasto
In Italia esistono fertili conche da millenni, lontane dal mare, vicino a monti spesso o sempre innevati. L’Umbria è l’unica regione non alpina della penisola che non ha coste mediterranee, né sull’Adriatico, né sul Tirreno; i suoi fiumi nascono soprattutto a est e confluiscono a ovest, perlopiù nel Tevere, garantendo comunque limpida acqua alle origini, facilmente resa potabile e palatabile. Quasi tutti gli antichi borghi collinari mostrano una meravigliosa raccolta di beni archeologici e architettonici, storici e artistici. Anche Gualdo Tadino, che ha organizzato da decenni un coordinato ricco polo museale, cui si può facilmente accedere pure con un biglietto unico: Museo archeologico “Antichi umbri”; Museo civico “Rocca Flea”; Museo opificio “Rubboli”; Museo della ceramica; Museo del somaro; chiesa monumentale di San Francesco (con affreschi, mostre temporanee e talora celebrazioni); museo regionale dell’emigrazione “Pietro Conti”.
Pietro Conti (Spoleto, 1928 - Perugia, 1988) fu il primo presidente della Regione Umbria (1970-76), poi deputato 1976-1987 e sindaco di Spoleto fino alla morte, e molto si prodigò per valorizzare il ricordo di quanti si erano trovati ad allontanare la residenza dalla regione e per mantenere un legame con le comunità delle generazioni successive degli italiani e degli umbri nel mondo. Il museo nacque ufficialmente venti anni fa, nel 2003, su spinta dell’amministrazione comunale di Gualdo Tadino, e risulta il primo museo italiano dell’emigrazione, fin da subito con impostazione e contenuti molto più che locali, di rilievo nazionale. Non vi erano musei né regionali né nazionale a quel tempo, uno esisteva a San Marino dal 1997, abbiamo già iniziato a parlare della fioritura successiva dei musei sulle migrazioni nel nostro paese, aldilà della denominazione scelta.
Era passato più di un secolo dall’inizio della storicamente più ampia ondata italiana di free migrations (emigrazioni con qualche grado di libertà, non totalmente forzate) verso molti paesi europei e quasi tutti i lontani altri continenti. Fra il 1876 e il 1988 si stima che furono circa 27 milioni gli italiani che emigrarono e di questi vi furono solo da 11 a 13 milioni di rientri. Soprattutto all’inizio, ogni anno emigrava una quota di popolazione abbastanza superiore all’uno per cento (non eravamo i 59 milioni del 2023), inimmaginabile oggi, emotivamente e socialmente. Nel primo periodo (1876-1914) gli espatri ammontarono addirittura a circa 14 milioni e 300 mila sapiens italiani. Al censimento del 1881 i residenti risultarono 28.159.000 e nel 1911 36.921.000. Va detto che fino al 1900 l'emigrazione umbra costituiva un fenomeno irrilevante se confrontato con le altre regioni italiane (penultimo posto nella percentuale di espatri medi annui per mille abitanti). Dal 1901 il quadro cambiò e anche l'Umbria divenne terra di emigranti, per raggiungere il settimo posto nel periodo 1911-1913 fra le regioni italiane, con il 21,34 per mille, diretti in prevalenza verso paesi europei: la Francia venne scelta dal maggior numero di emigranti, furono 36.956nel periodo 1900-1914, seguita da Germania con 31.657 e Svizzera con 27.088.
Il periodo tra le due guerre è caratterizzato da una ripresa dei flussi di espatrio, che andranno invece a ridursi durante il regime fascista. Il calo delle partenze venne determinato soprattutto dalle politiche restrittive di molti stati, come la Svizzera, il Canada e gli Stati Uniti che vararono nuove leggi contro l'immigrazione (legale e, ovviamente, illegale) e poi da una forte contrazione del mercato del lavoro, dovuta alla crisi economica del 1929. Va ricordato anche il fallimento delle politiche di colonizzazione volute dal regime fascista. Furono, infatti, solamente 350.000 gli italiani che fecero questa scelta, meno di quanti vivessero a New York o a Buenos Aires. Dall'Italia, nel periodo 1916-1942, sono emigrate 4.355.240 persone. Il flusso umbro fu simile a quello nazionale: una forte ripresa delle partenze nel 1918-20, un calo nel 1921, poi una crescita culminata nel 1924, una diminuzione fino al 1928, un'ultima impennata tra il '29 e il '33 e infine un progressivo declino fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Il secondo dopoguerra vide riprendere i flussi migratori. La ricostruzione degli Stati distrutti dalla guerra e la conseguente necessità di manodopera ne fu certamente una causa, ma anche per coloro a cui la guerra aveva distrutto il lavoro, la casa, gli affetti o la dignità umana, o pure per coloro a cui la sconfitta del fascismo aveva tolto i privilegi, l'emigrazione fu vista come la possibilità di rifarsi una vita. Nel periodo 1946-1976 furono quasi 7 milioni e mezzo gli italiani che espatriarono diretti in grande maggioranza verso i paesi europei, con alcuni dei quali il nostro governo di allora stipulò accordi per favorire l'emigrazione in cambio di vantaggi economici. Si stima che nel decennio 1946-54 i tre quarti degli emigrati italiani in Europa godettero dell'assistenza statale per trovare lavoro o per trasferirsi a lavorare all'estero, gli umbri nella media.
Da fine Ottocento i cittadini (e patrioti) italiani indotti a emigrare trovarono spesso poca assistenza e cattiva accoglienza, furono un poco aiutati a sopravvivere dai connazionali già presenti. Accade frequentemente ovunque in ogni caso di immigrazione. Contro gli immigrati italiani l'ostilità non di rado si trasformò in razzismo e in forme violente di persecuzione, un po' in tutte le fasi storiche fino agli anni Settanta del Novecento, in quasi tutti i paesi dove andarono. Negli Stati Uniti erano di fatto "i più maltrattati fra tutti i lavoratori stranieri", considerati appena un gradino superiore a quello delle comunità nere. I nostri connazionali lì immigrati erano Wop (without passport cioè senza passaporto), un nomignolo che suonava foneticamente: uàp, cioè guappo. La stessa ostilità era riscontrabile in tutti i paesi anglosassoni. L'altro soprannome che veniva affibbiato talora agli italiani era "dago", che secondo la tesi più accreditata sarebbe stato una "latinizzazione" di dagger: coltello, pugnale, daga. Che gli italiani fossero un popolo sempre pronto ad usare il coltello (e a mangiare spaghetti) è uno stereotipo che ci portiamo dietro dai resoconti di viaggio degli aristocratici nord-europei a partire dalla metà del Seicento. In Brasile gli immigrati italiani venivano chiamati indistintamente "carcamano" (colui che ruba sul peso della merce, "calcando la mano" sul piatto della bilancia).
L'immagine dell'italiano onesto, lavoratore e ben voluto è stata costruita in Italia, prima con la retorica del fascismo e poi con quella repubblicana del secondo dopoguerra. Ma la realtà era quasi sempre ben diversa. Lo stereotipo ricorrente, che aveva anche singoli casi a poterlo confermare (come sempre), era che l'italiano fosse "un violento e attaccabrighe", "un sovversivo", "un malavitoso", rari episodi e umorali stereotipi in cui veniva coinvolta la maggioranza perbene degli immigrati, poi cresciuti con il ruolo rilevante che alcuni italiani ebbero nel radicarsi della grande criminalità organizzata nell’impetuosa crescita economica e finanziaria delle democrazie occidentali. Ovviamente, tutto si mescolava: l’umana diffidenza verso l'altro, l'avversione verso le pratiche religiose più manifeste, il pregiudizio sul diverso colore della pelle dei meridionali italiani, l'ostilità politica alla docilità sindacale (spesso ritenuti dei crumiri) o al ribellismo anarchico, il degrado in cui spesso erano costretti a vivere, spingendo alcune comunità locali a violente campagne razziste contro gli italiani, sfociate a volte in tragedie (negli Usa come in Australia, a Marsiglia come a Zurigo).
Il museo di Gualdo Tadino è collocato in uno splendido complesso architettonico di un antico centro medievale ben sistemato, all’interno del palazzo del Podestà, edificio di origini medievali rimaneggiato del Cinquecento e poi ancora nel Settecento, e in alcuni ambienti dell’adiacente duecentesca torre civica, nel cortile appare incastonato un delizioso minuscolo anfiteatro per eventi collettivi, nella piazzetta che si trova all’inizio del centro storico, uscita dell’ascensore che proviene dal parcheggio gratuito (con disco orario). L’esposizione multimediale è suddivisa in tre livelli espositivi, ognuno con documenti, oggetti, teche, foto, installazioni. A piano terra trovate i temi dell’arrivo, itinerari e luoghi di destinazione, lavori e aspetti della complicata integrazione, in particolare le sezioni: le donne nell’emigrazione (nei molteplici significati), la miniera (con il solito “carrello”), Santa Barbara (patrona dei minatori, dei vigili del fuoco e dei marinai, invocata contro i fulmini e i pericoli del fuoco), strumenti da lavoro. Al primo piano il tema del viaggio; al secondo i fattori alla base della scelta o necessità di una individuale o collettiva decisione della partenza.
Il 29 novembre 2023 si festeggeranno i primi due decenni dall’apertura del primo museo italiano sulle migrazioni. Glispazi destinati al museo umbro dell’emigrazione sono piccoli, molto gradevoli, sapientemente organizzati, pensati per un insieme di attività, non solo mostrare ma consentire di apprendere (innumerevoli proposte didattiche e formative), di studiare (biblioteca e mediateca), di approfondire (con una longeva collana di testi cartacei, convegni e festival annuali di “memorie migranti”, testimonial, concorsi, cassette dvd), di condividere (cartoline, poster, oggettistica connessa e ricordi vari, quelle iniziative che per ora sostanzialmente sono carenti negli analoghi musei in Italia). Certo, è un po’ fuori dalle rotte dei grandi spostamenti e ha avuto in questi due decenni un numero di visitatori finora inferiore a quanto meriterebbe: circa 4-5.000 ogni anno, più o meno distribuiti fra turisti italiani e stranieri, studenti vicini e lontani, corregionali e concittadini, delegazioni e giornalisti vari.
Sono centinaia i documenti, le immagini e i racconti, provenienti da tutte le regioni italiane, custoditi nella sede museale, capaci di evidenziare concretamente addii, nostalgie e relazioni del nostro paese d’emigrazione, incontri, scontri e meticciati con le comunità del paese di integrazione, dolori e gioie, sconfitte e vittorie, sogni e quotidianità, comparazioni e riflessioni utili a comprendere meglio tutti gli aspetti del diacronico asimmetrico fenomeno dell’immigrazione. Il museo di Gualdo Tadino possiede anche il prezioso originale materiale documentario di Rai teche e della Radio televisione della Svizzera italiana, costituito da filmati, servizi giornalistici, film, documentari. Giorni e orari d’apertura: dal giovedì alla domenica, 10-13 e 15-18 (si può comunque preventivamente e opportunamente consultare il sito).