SOCIETÀ

Iran, la repressione infinita del regime

Il metodo è sempre lo stesso: impiccagione. Un rituale, un metodo, che le autorità iraniane hanno già applicato almeno 260 volte dall’inizio di quest’anno. L’ultima esecuzione è avvenuta domenica scorsa: tre persone accusate di traffico di droga, per aver smerciato grandi quantità di eroina, soprattutto a Teheran. Il giorno prima, sabato, un altro uomo, Shahrouz "Alex" Sokhanvari, era stato impiccato per ordine della Corte Suprema con l’accusa di “corruzione sulla terra”, per aver gestito una rete di prostituzione a livello internazionale. E il giorno prima, venerdì 19 maggio, altri tre uomini erano stati giustiziati, sempre su ordine della magistratura, sostanzialmente perché accusati di aver partecipato il 16 novembre scorso all’omicidio di tre funzionari di polizia (un agente e due esponenti del Basij, una forza paramilitare alle dirette dipendenze dei pasdaran), nella città di Ishafan, durante le proteste antigovernative che dallo scorso settembre, per mesi, hanno travolto il regime degli ayatollah in ogni angolo del paese. In realtà Majid Kazemi, Saleh Mirhashemi e Saeed Yaghoubi erano stati condannati, al termine del processo a loro carico, con l’accusa di aver commesso "guerra contro Dio" (moharebeh in lingua farsi). Ed è vero, i tre accusati avevano effettivamente ammesso i loro crimini. Ma Amnesty International ritiene che quelle confessioni siano state estorte con la tortura. E i familiari di Majid Kazemi, che aveva 30 anni, denunciano che durante gli interrogatori il detenuto era stato sospeso a testa in giù e che, prima di venerdì, era stato sottoposto ad almeno quindici “false esecuzioni”, rinviate all’ultimo secondo. Come riporta il Guardian, lo stesso Kazemi, in un messaggio audio registrato all’interno della prigione di Dastgerd, dov’era recluso, aveva detto: «Giuro a Dio che sono innocente. Non avevo armi addosso. Loro (gli agenti di sicurezza) hanno continuato a picchiarmi e a ordinarmi di dire che quest’arma era mia... Ho detto loro che avrei detto quello che volevano, solo per favore lasciate in pace la mia famiglia. Ho fatto quello che volevano perché mi hanno torturato». All’inizio del mese, lunedì 8 maggio, un’altra doppia impiccagione era stata eseguita nella prigione di Arak, nell’Iran centrale. Yousef Mehrad e Sadrollah Fazeli Zare erano accusati di blasfemia, per aver gestito un canale Telegram chiamato “Critica della superstizione e della religione”. Il tribunale di Arak ha ritenuto che diffondessero idee offensive per l’Islam: e che perciò meritassero la pena capitale. 

Reati vaghi, processi iniqui

Secondo un rapporto dell’Iran Human Rights (IHR), con sede a Oslo, in Norvegia, la Repubblica islamica dell’Iran ha aumentato del 75% il suo tasso di esecuzioni nel 2022 (almeno 582 impiccagioni eseguite rispetto alle 333 del 2021: è il secondo paese al mondo, dopo la Cina, per numero di condanne a morte). Una pratica che secondo l’ong il governo applica «…al fine di diffondere la paura tra la popolazione che ha inscenato proteste contro i governanti. Le autorità di Teheran hanno dimostrato quanto sia cruciale l’utilizzo della pena di morte per instillare la paura sociale al fine di mantenere il potere». L’ennesima ondata di esecuzioni ha nuovamente sollevato l’indignazione internazionale. Gli esperti dell’Onu, incaricati dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite di esaminare l’operato del governo iraniano dopo le proteste scoppiate lo scorso settembre, hanno dichiarato di essere profondamente allarmati per le continue esecuzioni di manifestanti. «Le autorità iraniane continuano ad avere scarso rispetto per il diritto internazionale», hanno scritto gli esperti in un rapporto pubblicato poche ore dopo l’esecuzione dei tre uomini. «La pena di morte è stata applicata a seguito di procedimenti giudiziari che non hanno rispettato gli standard internazionali accettabili di un processo equo o giusto». Gli esperti dell’Onu precisano: «I rapporti indicano che l’entità del presunto coinvolgimento degli imputati nella morte degli agenti di polizia rimane altamente incerta e discutibile. Gli agenti sarebbero stati uccisi da colpi di arma da fuoco durante le proteste nella provincia di Isfahan, il 16 novembre 2022. Eppure gli imputati non sono mai stati accusati esplicitamente di omicidio». La formula moharebeh (che si può tradurre anche con “inimicizia contro Dio”) è un reato buono per tutte le stagioni. Come spiegava il Post in un approfondimento pubblicato pochi mesi fa: «Il moharebeh è previsto nell’articolo 279 del Codice penale islamico (il Codice penale iraniano) ed è definito come: “Usare un’arma contro la vita, la proprietà o la castità delle persone o provocare terrore che crei un’atmosfera di insicurezza”. Già secondo questa definizione, il moharebeh è un reato eccezionalmente ampio e vago. La giurisprudenza iraniana, poi, ne ha ampliato ulteriormente il significato perché “fare la guerra a Dio” viene spesso interpretato come “opporsi all’ordine delle cose voluto da Dio”, che ovviamente agli occhi del regime iraniano è lo stato stesso». Quindi un reato che si può applicare anche per reati assai meno gravi: dagli atti di vandalismo alla pubblicazione di articoli di critica verso il regime, dai dissidenti politici fino a punire chi partecipa a manifestazioni di protesta. 

Ed è perciò con questa accusa che centinaia di coloro che nei mesi scorsi hanno manifestato, protestato e gridato contro i crimini perpetrati dalle forze di polizia alle dirette dipendenze degli ayatollah, sono finiti dietro le sbarre, affrontando processi che tutti gli osservatori internazionali (organizzazioni governative e non) giudicano privi dei più elementari standard internazionali di equità. Anche l’Unione Europea ha appena disposto un nuovo pacchetto di sanzioni contro 5 persone, tra le quali, il portavoce della polizia iraniana, per gravi violazioni dei diritti umani. Sanzionate anche due “entità”, compresa l’Organizzazione studentesca Basij (SBO) dell’Islamic Revolutionary Guard Corps (IRGC). Come spiega il Consiglio dell’UE: «Questa organizzazione agisce come esecutore violento dell’IRGC nei campus universitari dove gli studenti hanno inscenato proteste nell’autunno del 2022 e sono stati successivamente vittime di repressione e gravi violazioni dei diritti umani come rapimenti e torture». Attualmente, in totale, nell’elenco delle sanzioni stilato dall’Unione Europea compaiono 216 persone fisiche e 37 entità: sanzioni che consistono nel congelamento dei beni, nel divieto di viaggio verso l’UE e nel divieto di esportare verso l’Iran attrezzature che potrebbero essere utilizzate per la repressione interna e di attrezzature per il monitoraggio delle telecomunicazioni. 

La scintilla dell’omicidio di Mahsa Amini

Otto mesi sono trascorsi dalla scintilla che ha innescato la più recente e imponente ondata di manifestazioni contro il regime iraniano. Proteste scatenate dall’omicidio di Mahsa Amini, una studentessa curda di 22 anni, che la sera del 13 settembre dello scorso anno, mentre si trovava in visita da uno zioi a Teheran, è stata trascinata via con la forza dagli agenti della “polizia morale” su un furgone di servizio perché “indossava pantaloni stretti” e perché l’hijab che indossava non le copriva completamente i capelli: una ciocca era rimasta scoperta. Una violazione intollerabile al “dress code” imposto dal regime clericale al fine di “promuovere la virtù e prevenire il vizio”. Il pestaggio della ragazza, cominciato già nel furgone, era poi proseguito nella stazione di polizia di Vozara street. La sera stessa un’ambulanza aveva portato Mahsa al Kasra Hospital: era già in coma. Secondo i familiari, ai quali non è stata mai mostrata la Tac, perdeva sangue dalle orecchie e aveva contusioni sul corpo. Il 16 settembre era stata dichiarata ufficialmente morta. Un omicidio brutale, feroce, insensato, perfino negato dalle autorità iraniane, che avevano tentato di giustificare la morte con “problemi cardiaci congeniti”. Ma quell’omicidio ha segnato tuttavia un punto di svolta. Migliaia di giovani, soprattutto ragazze ma non soltanto, da allora si sono riversati nelle piazze a protestare con gesti eclatanti che mai s’erano visti sotto il regime degli ayatollah: si sono tagliati i capelli in pubblico, o postando brevi video sui social. Hanno bruciato i loro hjiab, che in un attimo si sono trasformati da espressione di un credo e di una cultura nel simbolo della più buia delle oppressioni. Senza più nascondersi, senza più avere paura. Una protesta che ha coinvolto nel profondo anche la società civile che ha partecipato a viso aperto, senza più nascondersi. Anche se il coraggio si paga. E la repressione imposta dai pasdaran è stata feroce. Decine di migliaia gli arresti, centinaia di vittime, compresi gli agenti di polizia, diventati bersaglio della rabbia dei manifestanti. I numeri sono vaghi, perché il governo iraniano non ha mai fornito cifre esatte, forse nel timore di offrire un “incentivo” ai dimostranti. Gli attivisti per i diritti umani in Iran stimano in circa 20mila gli arrestati, con 530 morti accertati: i numeri reali sono di certo più alti. Ma lo scorso marzo il procuratore capo Gholamhossein Mohseni Ejehi aveva annunciato che le autorità iraniane avevano deciso di “graziare” 22mila persone arrestate durante le proteste antigovernative. Nessuna conferma da fonti indipendenti del rilascio di massa è mai arrivata. L'ayatollah Khamenei ha accusato gli Stati Uniti e Israele, acerrimi nemici dell’Iran, di aver orchestrato le rivolte. Intanto il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha appena nominato il nuovo capo del Consiglio supremo di sicurezza nazionale: Ali Akbar Ahmadian, 62 anni, un militare di carriera, veterano del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche. Prende il posto di Ali Shamkhani, artefice del recente “disgelo” con l’Arabia Saudita, con le relazioni diplomatiche ristabilite, grazie alla mediazione della Cina, dopo sette anni di dissidi. Cina che sempre più sta diventando “attore dominante” sulla scena politica ed economica nella regione. 

Intanto la protesta della società civile iraniana, delle donne, continua, ancora oggi, anche se con tratti meno eclatanti. Non più le gigantesche manifestazioni di piazza, ma un interminabile collage di piccoli gesti di ribellione. Come spiega il sociologo iraniano Farhad Khosrokhavar, direttore di ricerca della Scuola di studi superiori in scienze sociali di Parigi (EHESS): «La rabbia dei dimostranti è ancora visibile ma ha cambiato forma. Si manifesta in un modo più sporadico e individuale. Di fronte alla brutale repressione del regime iraniano, la resistenza è stata costretta ad adattarsi. Le proteste di piazza sono state gradualmente soffocate. Ma la dimensione femminista del movimento continua: le donne si rifiutano di indossare il velo per strada». Perciò il regime ha ordinato l’installazione di telecamere all’interno di ristoranti, banche e negozi, disponendo il divieto d’accesso per le donne “non velate” (e chi consentirà loro l’ingresso, rischia la chiusura dell’attività). «Misure che si sono dimostrate inefficaci», ha commentato Mahmood Amiry-Moghaddam, direttore della ong Iran Human Rights, interpellato pochi giorni fa da Euronews. «La repressione non è riuscita a riportare la situazione a quella che era prima della morte di Mahsa Amini». La protesta dilaga anche tra i giovani iraniani all’estero: negli Stati Uniti, in Canada, in Europa (ieri a Roma s’è svolta una manifestazione davanti all’ambasciata della Repubblica islamica). «La formazione dell’opposizione nella diaspora iraniana è una forza trainante per un eventuale cambio di regime», spiega ancora il sociologo Khosrokhavar. «Ma se anche questa rivolta non rovesciasse il regime, il suo impatto politico potrebbe essere importante a lungo termine. Questo movimento ha gettato le basi per la futura partecipazione della maggior parte della società civile iraniana». Ne è convinto anche il direttore di Iran Human Rights: «È solo una questione di tempo, prima che una nuova rivoluzione prenda piede. Il conto alla rovescia è iniziato il giorno in cui hanno ucciso Mahsa». Basta non dimenticare, anche da lontano, che lì in Iran la partita è tutt’altro che chiusa. Come ha scritto pochi giorni fa Golshifteh Farahani, attrice iraniana che dal 2008 è stata costretta all’esilio, in Francia: «Ciò che sta avvenendo in Iran è una lotta per la libertà e l’uguaglianza. Non è una lotta contro l’hijab o contro gli uomini. È una lotta contro l’ignoranza. Non c’è il coinvolgimento di una qualche precisa ideologia né di alcun movimento politico formale, di sinistra o di destra. La semplicità della richiesta di libertà è ciò che la rende così potente. Ma un movimento come questo ha bisogno che si alzino voci in suo sostegno. Rimanere in silenzio vuol dire essere complici».  

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