Benjamin Netanyahu si riprende la scena e, con ogni probabilità (il conteggio dei voti non è ancora terminato), la poltrona di primo ministro d’Israele. L’ennesima tornata elettorale (la quinta in quattro anni) gli ha consegnato una maggioranza perfino più ampia di quanto avessero previsto i sondaggi: 65 seggi sui 120 della Knesset. Un risultato che fa clamore: soprattutto per il ritorno in sella del più longevo e controverso leader d’Israele (sotto processo per corruzione), che fino all'anno scorso aveva governato per 15 anni, 12 dei quali consecutivi. E che continua, a 73 anni, a essere il “discrimine” della politica israeliana, al punto da diventare il perno centrale degli slogan di entrambi gli schieramenti: tra chi sostiene che “non c’è futuro senza Netanyahu” e chi invece ritiene che “con Netanyahu non c’è futuro”. Dunque “Bibi is Back”, come esultano i suoi sostenitori. Ma è tornato a vincere soltanto grazie a una strategia assai spregiudicata: abbracciando la destra più estrema e radicale, quella che fino a poco tempo fa appariva come “impresentabile” agli stessi parlamentari del Likud, tanto feroci erano le posizioni anti-arabe che esprimeva. Da solo non ce l’avrebbe fatta: così ha deciso di giocarsi la carta più estrema, la più pericolosa per lo stato d’Israele. Scorrendo tra le proposte del Religious Zionist Party di Bezalel Smotrich, che si è presentato in ticket con Otzma Yehudit (Potere ebraico), guidato da Itamar Ben Gvir, si leggono i “principi” della loro politica: pena di morte per i terroristi, immunità per i soldati dell’esercito israeliano in servizio (licenza di uccidere), nessun dialogo con i palestinesi, immediata e totale sovranità israeliana nei territori occupati, annullamento della “Legge del Ritorno”, che dal 1970 consente a chi ha un nonno ebreo di ottenere la cittadinanza. Entrambi invocano apertamente la violenza armata contro i palestinesi. Ben Gvir, un avvocato che nulla fa per nascondere le sue posizioni violente e razziste, ha proposto che i palestinesi in Israele vengano sottoposti a un “test di fedeltà” (e chi risulterà “sleale” sarà espulso da Israele). Due settimane fa, durante una manifestazione di attivisti palestinesi a Gerusalemme Est, ha tirato fuori una pistola incitando la polizia ad aprire il fuoco contro i manifestanti. Gvir, dal 2021 deputato della Knesset, ha collezionato oltre 50 denunce per vandalismo, istigazione al razzismo, per aver fomentato disordini, per aver sostenuto organizzazioni terroristiche. Otto volte è stato condannato. Ma ora è lui l’astro nascente della politica israeliana. Il prossimo governo sarà dunque condannato a un fragilissimo equilibrio: se Netanyahu vorrà conservare il ruolo di premier (e lui lo vuole, a qualsiasi costo, se non altro per rallentare, o eludere, i processi a suo carico) dovrà cedere sempre più alle pretese dell’estrema destra. Un gioco al rialzo dagli esiti, purtroppo, prevedibili.
L’imbarazzo degli Stati Uniti
Oltre ai 32 seggi del Likud e ai 14 del Sionismo religioso, la coalizione di destra potrà contare sugli 11 seggi del partito sefardita ortodosso Shas e sugli 8 del partito ultra-ortodosso ashkenazita UTJ (United Torah Judaism). Aver permesso ai suprematisti di entrare al governo potrebbe non soltanto avere immediate ripercussioni economiche, ma potrebbe far rapidamente scivolare Israele sul piano inclinato delle sanzioni internazionali. Ne è sicuro il professor Dan Ben-David, economista, direttore della Shoresh Institution for Socioeconomic Research e ricercatore all’Università di Tel Aviv, che al Jerusalem Post ha dichiarato: «Netanyahu ha promesso tonnellate di denaro a vari settori, ipotecando il futuro di Israele. Ma con l’ingresso dei suprematisti in posizioni di leadership nel gabinetto politico, Israele dovrà presto difendersi dalle accuse di discriminazione razziale. Basterebbe guardare a quel che è accaduto in Sud Africa per avere un'idea del tipo di sanzioni economiche con cui potremmo essere colpiti se questo governo seguisse anche solo una parte delle cose che i partiti di estrema destra hanno promesso di fare». E le sanzioni, sostiene il professor Ben-David, potrebbero a loro volta portare alla fuga dei maggiori investitori economici. Ma è evidente che l’ormai inevitabile ingresso degli estremisti di destra nella squadra di governo (Ben Gvir reclama per sé il ministero della Sicurezza interna, mentre Bezalel Smotrich punta alla Difesa) creerebbe più di un imbarazzo nei principali alleati di Israele, a partire dagli Stati Uniti. L’ex ambasciatore americano, Martin Indyk, è stato chiaro: «L’amministrazione Biden non ha una buona storia di relazioni con Netanyahu, e se assume questi estremisti di estrema destra nel suo governo e nel suo gabinetto, allora penso che stiamo entrando in una rocky road (“una strada rocciosa”)». Più cauto l’attuale ambasciatore degli Stati Uniti in Israele,Tom Nides: «È troppo presto per speculare sull’esatta composizione della prossima coalizione di governo». E in una nota sostiene che non vede l’ora di «continuare a lavorare con il governo israeliano sui nostri interessi e valori condivisi». Lo stesso Ben Gvir, non appena sono state rese note le “perplessità” americane, ha accusato la «sinistra di aver incitato gli americani a interferire nella democrazia israeliana». E siamo solo all’inizio.
La disillusione degli arabi, l’inconsistenza della sinistra
Il voto di martedì scorso racconta molto altro. Anzitutto che la maxi coalizione anti-Netanyahu, guidata in tandem da Naftali Bennett e Yair Lapid, rispettivamente leader di Yamina (destra) e del partito centrista Yesh Atid, che lo scorso anno era riuscita a spedire King Bibi all’opposizione, si è di fatto dissolta. Quel governo era caduto per le troppe differenze di vedute al suo interno, nell’impossibilità di conciliare le dominanti e diffuse posizioni di destra con le istanze dei partiti arabi (il partito arabo-israeliano Ra’am, il 17 aprile 2022, aveva ritirato il suo appoggio al governo in segno di protesta dopo gli scontri tra israeliani e palestinesi attorno alla Moschea di Al-Aqsa). Per Lapid, che aveva impostato la campagna elettorale sullo slogan “è una scelta tra noi e loro”, è una dura sconfitta nonostante i 24 seggi conquistati dal suo partito. E dunque si allontana sempre più la “soluzione a due stati”, che lo stesso premier uscente Lapid aveva recentemente, e pubblicamente, sostenuto come unica via d’uscita per risolvere l’eterno conflitto tra israeliani e palestinesi. Deludente anche la prova del partito di Unità Nazionale guidato dall’attuale ministro della Difesa, Benny Gantz: appena 12 seggi. Soltanto 4 i seggi del Labour, simbolo di una sinistra che ormai, in Israele, quasi non esiste più (al momento i socialisti di Meretz sono sotto il 3,25%, la soglia minima per ottenere seggi alla Knesset), incapace di proporre un’idea, un’agenda alternativa. Mentre i partiti arabi, divisi sotto tre sigle e di fatto “abbandonati” dai loro elettori, si sono limitati a “giurare opposizione” al futuro governo di estrema destra. Jamal Nazzal, portavoce di Fatah (il partito del presidente dell’Olp, Abu Mazen) in Europa, ha descritto così, ad Al Jazeera, la disillusione degli elettori arabi: «Non vedo differenze tra gli schieramenti guidati da Yair Lapid e da Netanyahu. Entrambi competono in termini di chi è più razzista nei confronti della popolazione araba all’interno di Israele, e chi è più estremo in termini di mantenimento dell’occupazione. Abbiamo assistito negli ultimi mesi a un aumento della violenza israeliana e del terrorismo contro i palestinesi, quindi nessuno può dire che il governo di Yair Lapid sia in realtà moderato perché ha più sangue sulle sue mani in un breve lasso di tempo rispetto ai suoi predecessori».
A rischio la democrazia e la separazione dei poteri
I prossimi giorni non saranno quindi all’insegna della concordia, nonostante l’appello pre-voto del presidente israeliano Isaac Herzog: «È importante onorare i risultati delle elezioni, qualunque essi siano. È un obbligo fondamentale per noi come società civile». La formazione dell’effettiva squadra di governo sarà un passaggio fondamentale, la dimostrazione che davvero qualcosa è cambiato. A partire dal ruolo di Bibi Netanyahu: nei precedenti governi era lui a giocare nel ruolo di “estremista”, e perciò si circondava di alleati centristi, in grado di compensare le spinte nazionaliste. Ora, con l’ingresso degli ultranazionalisti al governo, il “moderato” è diventato lui. E a livello internazionale, e diplomatico, ci saranno certamente ripercussioni. Ben Gvir non farà un solo passo indietro: vuol cavalcare l’onda, forte di un successo in clamorosa ascesa che potrebbe diventare ancor più eclatante nell’immediato futuro (lui che appena due anni fa aveva conquistato lo 0,42% dei voti). E non ne farà Netanyahu, perché ha troppo da guadagnare. Il leader del Sionismo religioso, Bezalel Smotrich, ha già presentato un piano di riforma della giustizia definendolo “precondizione indispensabile” per l’ingresso della sua formazione nel futuro governo. Se approvata, questa riforma consentirebbe alla Knesset di ignorare le sentenze dell’Alta Corte (che, ad esempio, può annullare una legge del Parlamento se viola una delle 13 leggi fondamentali di Israele). «Questa riforma è una nostra assoluta priorità», ha precisato il deputato neoeletto Amichay Eliyahu. «Il nostro partito ripristinerà la democrazia che è stata sequestrata da un piccolo gruppo di persone nel sistema giudiziario». Nella “riforma” è prevista anche la cancellazione del reato di “frode e violazione della fiducia”, due delle accuse su cui si fondano i processi a carico di Netanyahu. Non è una coincidenza: è un piano. Netanyahu pretende la sua “redenzione” a qualsiasi costo. Yair Lapid, alla vigilia del voto, l’aveva già capito: «Se questa banda salirà al potere, farà ogni sforzo per distruggere la democrazia israeliana, per cancellare l’autorità dei tribunali, per distruggere la separazione dei poteri in Israele. Non si preoccupano nemmeno di nasconderlo più. È una campagna deliberata per annullare il processo di Netanyahu, e se annullano il processo di Netanyahu usando il potere politico, ciò significherebbe che la democrazia israeliana non è più la democrazia israeliana come la conosciamo». L’appello non è bastato a cambiare il verdetto alle urne. E ora il coefficiente di rischio per gli israeliani, interno e internazionale, diventa enorme. Anche il deputato del Likud, Mickey Zohar, è stato chiaro su cosa accadrà in futuro: «La differenza principale sarà che questa volta governeremo davvero». In molti l’hanno letta come una minaccia.