SOCIETÀ

Israele, nuova crisi di governo

Non c’è pace in Israele, né fuori dai suoi confini né dentro. Il governo guidato da Naftali Bennett, entrato in carica esattamente un anno fa, nel giugno 2021, ha gettato la spugna dopo l’ennesima defezione che ha fatto sfumare qualsiasi ipotesi di maggioranza al Parlamento israeliano. Il premier (leader del partito di estrema destra Yamina) e il suo vice Yair Lapid (attuale ministro degli esteri e capo di Yesh Atid, partito laico di centro) hanno chiesto congiuntamente lo scioglimento della Knesset. Il voto è previsto per domani, martedì 28 giugno. Se la mozione passerà (ed è probabile, ma i colpi di scena non sono esclusi), gli israeliani torneranno a votare per la quinta volta in tre anni. Che la maggioranza fosse fragile si sapeva: una coalizione estremamente variegata, un miscuglio di 8 forze politiche (dall’estrema destra ai centristi, dalla sinistra fino alla Joint List, l’alleanza politica tra i partiti arabi) senza alcun punto di contatto o di coesione sui contenuti se non quello di sbattere all’opposizione Benjamin Netanyahu, e il suo Likud, dopo dodici anni ininterrotti trascorsi al potere. Maggioranza però assai risicata: 61 parlamentari sui 120 che siedono alla Knesset. Con questi numeri è addirittura un miracolo che la coalizione abbia resistito un anno intero.

Per farla saltare sono bastati alcuni scossoni. Il primo lo scorso aprile, quando un deputato di Yamina, Idit Silman, ha annunciato che avrebbe ritirato il sostegno all’esecutivo: «I valori chiave nella mia visione del mondo non sono coerenti con la realtà attuale», ha scritto Silman in una lettera a Bennett, senza peraltro specificare quali fossero nello specifico quei “valori”, anche se è facile immaginarli. Da lì in poi i malumori si sono moltiplicati, in un paese attraversato come sempre da tensioni altissime, in quell’eterno cortocircuito di torti e di ragioni, di attacchi e reazioni, di estremismi e fanatismi, di diritti calpestati, di pretese, di armi, di vittime. Come quelle israeliane, in seguito all’ondata di attentati compiuti quest’anno (da Tel Aviv a Bnei Brak, a Hadera) da terroristi palestinesi. E con la successiva, durissima rappresaglia dell’esercito israeliano, che ha lanciato una serie di attacchi missilistici in Cisgiordania (l’ultimo la scorsa settimana), soprattutto a Jenin, considerata la roccaforte di Hamas.

Lo scorso 11 maggio la giornalista palestinese di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, è stata assassinata da un’unità d’élite dell’esercito israeliano, mentre stava documentando per l’emittente araba proprio gli attacchi a Jenin: secondo il New York Times la successiva inchiesta ha mostrato come non ci fossero palestinesi armati nelle vicinanze: un omicidio intenzionale. E che dal convoglio sarebbero stati esplosi 16 colpi, e non 5, come inizialmente dichiarato dall’esercito israeliano. Benny Gantz, ministro della difesa, ha dato mandato, pochi giorni fa, di rafforzare parte del muro che separa la Cisgiordania, sostituendo l’attuale recinzione con un muro di cemento armato alto 9 metri e lungo 45 chilometri

La moschea della discordia

Scontri che hanno avuto naturalmente riflessi anche nel governo. La Joint List, la coalizione dei partiti arabi, ha protestato a voce altissima non soltanto contro gli attacchi indiscriminati in Cisgiordania, ma anche contro i continui raid condotti successivamente dalla polizia israeliana nella moschea di Al-Aqsa (terzo luogo sacro dell'Islam, a Gerusalemme Est, sulla spianata delle moschee), disturbando o addirittura impedendo la preghiera dei musulmani, con centinaia di palestinesi rimasti feriti negli scontri. Ad innescare la tensione alcune migliaia di coloni estremisti israeliani che si erano recati nel complesso della moschea per celebrare (con grida e musiche a tutto volume) la festa ebraica della Pasqua, nonostante la consuetudine preveda che soltanto i musulmani possano pregare in quel luogo. A legittimare la presenza dei coloni ci ha infine pensato, a fine maggio, la sentenza di un tribunale israeliano, nella quale si sostiene che “tutti i residenti di Israele possono salire sul Monte del Tempio e praticare i loro rituali religiosi”. Sentenza criticata duramente dal ministero degli esteri palestinese, che in una nota l’ha definita «un colpo di stato israeliano contro lo status quo, che lo stravolge completamente: un’esplicita dichiarazione di guerra religiosa che minaccia di far esplodere l’arena del conflitto e l’intera regione». Infine l’esecutivo è stato battuto anche su un disegno di legge che estendeva il diritto civile israeliano ai coloni nella Cisgiordania occupata. Andare avanti, con questi numeri, con queste fronte interne, era ormai diventato impossibile.

In una simile situazione, in assenza di alcun segnale che possa far sperare in un futuro di minor violenza e di maggiore tolleranza, di comprensione, di rispetto, l’ennesima caduta di un governo, e dunque la rinnovata fragilità politica di Israele, è comunque motivo di grande preoccupazione. L’unico a esultare è Benjamin Netanyahu, attuale capo dell’opposizione, che ha l’occasione di tornare in sella, o comunque al centro della scena politica, dall’alto dei suoi 72 anni e nonostante i processi che lo vedono accusato di corruzione e appropriazione indebita. King Bibi si è immediatamente tuffato nella nuova campagna elettorale, dando sfoggio della sua abituale arroganza e supponenza, girando tra i parlamentari in carica alla ricerca di alleati dell’ultim’ora, nella speranza di riuscire a mettere in piedi una maggioranza numericamente credibile. «Dopo una decisa lotta dell'opposizione alla Knesset e la grande sofferenza dell'opinione pubblica israeliana, è chiaro a tutti che il peggior governo nella storia del Paese è giunto al termine», ha commentato Netanyahu pochi minuti dopo le dimissioni annunciate da Bennett. «Io e i miei amici formeremo un ampio governo nazionale guidato dal Likud. Un governo che si prenderà cura di voi, di tutti i cittadini di Israele, senza eccezioni. Un governo che abbassa le tasse, che abbassa i prezzi, che porterà Israele a risultati straordinari compreso l'ampliamento del cerchio della pace, come abbiamo già fatto». La nuova chance politica per il capo del Likud potrebbe inoltre condizionare lo svolgimento dei processi in corso presso il Tribunale distrettuale di Gerusalemme, facendo il gioco della difesa, alimentando la “teoria della persecuzione”, che non ha alcuna base reale, ma che è assai dibattuta nell’opinione pubblica. E se davvero riuscisse ad essere eletto, i procedimenti a carico del primo ministro in carica potrebbero finire per essere bloccati.

Al di là dei proclami, dei ballon d’essai lanciati più per valutare le reazioni degli elettori che per reale convinzione, per Netanyahu la strada è comunque in ripida salita. Secondo i sondaggisti il solo Likud (che da partito di centrodestra ha ormai decisamente virato verso posizioni di estrema destra radicale antipalestinese) può contare su 35 seggi. I 26 che mancano per raggiungere la maggioranza minima di 61 (su 120 deputati del parlamento monocamerale israeliano) potrebbe trovarli tra le formazioni ultraortodosse e tra i “dissidenti” di Yamina, che in cambio di un ruolo sarebbero disponibili a un cambio in corsa. Le ultime stime dicono che la coalizione di ultradestra potrebbe contare oggi tra i 58 e i 60 seggi. Mentre i “nemici” di Netanyahu hanno già proposto una legge per impedire in futuro un governo guidato da un premier in stato d’accusa. Intanto lui, Bibi, giura che il prossimo sarà il suo ultimo mandato.

La partita degli estremismi

Dunque martedì il voto sullo scioglimento del Parlamento. Se sarà accolto (sempre che Netanyahu non riesca a proporre un nuovo esecutivo), le prossime elezioni dovrebbero tenersi il 25 ottobre. Naftali Bennett comunque lascerà il suo incarico. Al suo posto, per sbrigare gli affari correnti fino alle elezioni, salirà Yair Lapid, leader dei centristi laici, al quale sarebbe spettato di subentrare dopo 18 mesi dalla nascita del governo. Un passaggio non scontato: «Mi complimento con Bennett per la responsabilità che dimostra, per il fatto che antepone l’interesse di Israele al proprio», ha commentato Lapid, un ex giornalista, moderato, con una spiccata propensione al dialogo. Sarà perciò lui, salvo colpi di scena, ad accogliere Joe Biden a metà luglio, prima tappa del tour che porterà il presidente americano anche in Cisgiordania e in Arabia Saudita. Non è soltanto una questione di forma: Lapid, per dirne una, sostiene la soluzione a due stati con i palestinesi, a differenza di Bennett, che si è sempre dichiarato contrario. L’impressione è che il ruolo di Lapid da qui in avanti sarà sempre più decisivo perché è attorno a lui che potrebbe prendere forma una coalizione alternativa a quella proposta dal Likud. Riproponendo la solita polarizzazione che sta paralizzando la politica israeliana negli ultimi anni: da un lato l’estrema destra ultranazionalista, dall’altra il resto delle forze politiche. Al punto che lo stesso Lapid ha avvertito: «Attenzione alle mosse dell’estrema destra: la persona oggi più potente, la più grande minaccia nell’opposizione non è Netanyahu, ma Itamar Ben Gvir (membro del Partito sionista religioso ultranazionalista Otzma Yehudit). Il suo messaggio è violenza, puro nazionalismo razzista», ha incalzato Lapid. «Netanyahu sa che non può eludere il processo, quindi dipende interamente da Ben Gvir. La campagna degli estremisti è chiara: vogliono schiacciare tutti, abbattere la Knesset e liberarsi di tutti i diritti».

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