SOCIETÀ

L'eterno incubo di Haiti: stretta tra la criminalità e l'indifferenza internazionale

Ormai persino le parole sembrano vuote, spente: «Non sottolineerò mai abbastanza la gravità della situazione ad Haiti, dove molteplici crisi prolungate hanno ormai raggiunto un punto critico», ha dichiarato pochi giorni fa María Isabel Salvador, rappresentante Speciale dell’Onu per Haiti, all’assemblea del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. È l’ennesimo allarme lanciato nella speranza di accendere una fiammella di speranza, di risvegliare qualche coscienza, per spingere la comunità internazionale ad aprire gli occhi su quel che sta accadendo, ormai da anni, in quel disperato paradiso dei Caraibi che sembra non interessare più a nessuno. Per portare finalmente un aiuto concreto nel tentativo di arginare l’impressionante violenza e l’impunità delle bande armate che ormai dettano legge, dalla capitale Port-au-Prince fino ai popolosi distretti di Artibonite e di Cap-Haïtien. Soltanto nel 2023 scorso sono state uccise 4.789 persone, più del doppio rispetto all’anno precedente. E altre 2490 sono state rapite, a scopo d’estorsione. Per non dire del dilagare incontrollato degli stupri, anche di ragazzine di 12 anni, del reclutamento sistematico degli adolescenti nelle varie bande, per necessità di sopravvivenza o sotto minaccia; delle rapine, dei saccheggi, delle case incendiate. Quasi 5 milioni di persone, la metà degli abitanti di Haiti, vivono in una situazione di “insicurezza alimentare acuta”, secondo le Nazioni Unite. La FAO (Food and Agriculture Organization) rileva che «le famiglie haitiane affrontano grandi divari nel consumo di cibo che si traducono in un’elevata malnutrizione acuta e mortalità in eccesso, o sono costrette ad adottare meccanismi di coping negativi per coprire i bisogni alimentari, come vendere beni o mangiare semi invece di piantarli, aumentando la loro vulnerabilità». Nella capitale girano in continuazione manipoli di uomini armati. E la polizia fa quel che può, ossia poco: anche perché negli ultimi tre anni oltre tremila agenti sono stati ammazzati. L’anno scorso 1600 di loro si sono licenziati. Così alcuni haitiani, stufi dello strapotere delle bande e dell’inazione della polizia (non sono rari gli episodi di collusione) si sono organizzati una forma di “resistenza” privata, formando il movimento di vigilantes “Bwa Kale” (in creolo haitiano vuol dire letteralmente “legno sbucciato”), un fenomeno che sta crescendo anche grazie al tam-tam sui social. Ma che risponde alla violenza con altrettanta ferocia: le vittime dei “giustizieri privati” sarebbero centinaia: criminali linciati, uccisi a bastonate, depredati delle armi. La legge del più forte, o del più disperato. Il primo ministro Ariel Henry ha espresso “disapprovazione” per le azioni del movimento Bwa Kale.

Il futuro opaco del presidente Ariel Henry

Haiti è allo stremo. Come non bastasse la gravissima crisi umanitaria, sociale, politica, c’è anche da fronteggiare l’emergenza colera. Servirebbero aiuti, di ogni genere (alimentari, sanitari, militari), ma anche questa partita è tutt’altro che semplice da organizzare. L’ultimo stop è arrivato dal Kenya, che avrebbe dovuto guidare una missione armata internazionale, approvata lo scorso ottobre dal consiglio di sicurezza dell’Onu, per contenere le quotidiane violenze delle bande criminali. I primi 1000 agenti di polizia keniani sono stati però fermati dalla Corte Suprema del Kenya, che ha giudicato incostituzionale l’invio di personale di polizia in un paese straniero in assenza di “un accordo reciproco con il governo ospitante”. Dunque missione bloccata. E in Kenya, paradossalmente, più di qualcuno ha tirato un sospiro di sollievo, visto com’era andata a finire l’ultima missione internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite (dal 2004 al 2017): un sostanziale fallimento generale, ma con il sovrapprezzo intollerabile di sistematici abusi sessuali proprio da parte dei “caschi bianchi” dell’Onu. La situazione era poi precipitata dopo l’omicidio (si è poi scoperto ad opera di un commando formato da 28 sicari, in gran parte colombiani) del Presidente Jovenel Moïse, assassinato nella sua casa sulle colline di Port-au-Prince nel luglio del 2021. Il mandante? Non si sa. Presidente ad interim, e primo ministro, è ancora oggi Ariel Henry, insediato pochi giorni dopo quel delitto con il compito di organizzare nuove elezioni e dare stabilità al paese: ma nulla di tutto ciò è accaduto. Il suo mandato dovrebbe scadere tra pochi giorni, il prossimo 7 febbraio, ma nessuno, in questa situazione di eccezionale incertezza e fragilità sociale, si azzarda a parlare di elezioni. Lo stesso Ariel Henry non si è espresso al riguardo. Mentre proprio lui era stato a chiedere all’Onu, lo scorso settembre, “l’urgente dispiegamento di una forza multinazionale ad Haiti per reprimere la violenza delle bande criminali”. Appello subito raccolto dal Kenya, con il proposito di «voler prendere parte alla ricostruzione del Paese, che da anni è gestito da funzionari non eletti», come aveva spiegato il ministro degli Esteri del Kenya, Alfred Mutua. «Questo mandato non riguarda solo la pace e la sicurezza, ma anche la ricostruzione di Haiti, la sua politica, il suo sviluppo economico e la stabilità sociale». La Casa Bianca, che aveva comunque deciso di non inviare soldati, aveva pubblicamente espresso la sua “gratitudine” al Kenya per aver assunto la guida del contingente militare. E pochi altri paesi avevano aderito: Giamaica, Bahamas, Antigua e Barbuda, Senegal, Ciad. Scrive il Guardian: «Gli interessi del Kenya nel guidare la missione rimangono poco chiari. Gli osservatori hanno ipotizzato che faccia parte dei tentativi dell’attuale amministrazione di migliorare il proprio profilo internazionale, mentre altri vedono il suo coinvolgimento come un proxy per il suo alleato occidentale, gli Stati Uniti. Il Kenya trarrebbe anche un guadagno finanziario dalla missione, per la quale gli Stati Uniti avevano promesso 100 milioni di dollari in risorse di intelligence, supporto logistico e medico». Il governo del Kenya ha già detto che presenterà appello per una revisione della sentenza.

Le connessioni tra bande criminali e Stati Uniti

Ma i tempi si allungano, e nessun contingente armato straniero arriverà a breve sulla porzione a ovest dell’isola Hispaniola, una delle più grandi delle Antille (e la più povera), nel tentativo di ripristinare l’ordine, le regole, le leggi. E a poco sono servite anche le “sanzioni” imposte lo scorso dicembre dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu a carico di quattro capi di bande criminali attive ad Haiti: si tratta di Renel Destina, leader della banda del Grand Ravine; di Vitel’homme Innocent, a capo della banda di Kraze Barye (l’FBI l’ha inserito da pochi mesi nell’elenco dei dieci criminali più ricercati perché accusato del rapimento di 16 missionari cristiani nel 2021); di Johnson Andre, alias “Izo”, della gang 5 Segond (lui e la sua banda sono accusati di rapimenti, saccheggi, stupri e traffico di droga); e di Wilson Joseph di 400 Mawozo. Il problema vero sono i rifornimenti, i fiancheggiatori, i finanziatori: chi sovvenziona questi criminali, chi consente loro di ampliare il loro potere criminale. Tutte le piste portano agli Stati Uniti. C’è chi parla di trafficanti che spediscono armi, munizioni e droga sull’isola dalla Florida. Mentre l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e del crimine (UNODC) ha appena rilasciato un rapporto nel quale si identificano quattro principali rotte marittime e terrestri utilizzate per flussi illeciti di armi da fuoco e munizioni, principalmente dagli Stati Uniti, molte delle quali arrivano ad Haiti utilizzando piste di atterraggio clandestine (ne sono state individuate 11). Ma c’è di più: analizzando le armi sequestrate dalla polizia haitiana alle bande (pistole Taurus, Glock, Beretta e Smith & Wesson), si è scoperto che la maggior parte proveniva da stati americani, in particolare da Florida, Arizona, Georgia, Texas e California. Così le bande continuano con i rapimenti a scopo di estorsione, per finanziare i loro arsenali e per rifornirsi di droga. L’ultimo episodio noto è il rapimento di 6 suore della Congregazione di Sant’Anna, il 19 gennaio scorso, mentre si trovavano su un autobus diretto a Port-au-Prince, per le quali anche il Papa aveva lanciato un appello. I rapitori chiedevano 3 milioni di dollari come riscatto. Le suore sono state liberate la scorsa settimana, ma non si sa a quale prezzo.

Sembra quasi che nessuno voglia mettere il naso in quel che accade ad Haiti. Anche la Repubblica Dominicana, che condivide l’altra metà dell’isola Hispaniola, ha chiuso, lo scorso settembre, tutte le linee di confine terrestri, aeree e marittime con i vicini haitiani. Formalmente per una disputa su un canale in costruzione sul territorio haitiano, che però attinge a un fiume condiviso, il fiume Massacre, che corre lungo il confine e che prende il nome da un feroce scontro tra colonizzatori spagnoli e francesi nel XVIII secolo, ed è stato teatro nel 1937 di un’uccisione di massa di haitiani da parte dell’esercito dominicano. Il presidente dominicano Luis Abinader sostiene che il canale devierà l’acqua e influenzerà negativamente gli agricoltori dominicani, mentre il governo di Haiti sostiene che la costruzione del canale rientra nel suo diritto sovrano di decidere come utilizzare le sue risorse naturali. Ma è probabile che si tratti di una misura preventiva, con Santo Domingo che vuole evitare “contaminazioni” con le attività delle bande haitiane e alzare un muro di fronte agli haitiani in fuga dalla crisi. Secondo l’Agenzia dominicana per le migrazioni (Dirección General de Migración, DGM), nel 2023 mezzo milione di haitiani privi di documenti sono stati espulsi dalla Repubblica Dominicana. Il ministro degli Esteri dominicano Roberto Alvarez, parlando al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a New York, ha dichiarato: «Il lungo e ingiustificato ritardo dell’invio di una forza di sicurezza ad Haiti ha peggiorato l’abisso della violenza e della povertà in quel paese. Il ritardo nell’azione sulla risoluzione 2699 sta portando più disperazione ad Haiti e ha permesso alle bande criminali di aumentare il loro potere. E lo sviluppo di una Haiti democratica è necessario per mantenere il progresso nella Repubblica Dominicana». Si calcola che soltanto lo scorso anno circa 150.000 persone hanno lasciato l’isola cercando di raggiungere gli Usa. Al 2022, ultimo dato disponibile, risultavano residenti negli Stati Uniti 731.000 immigrati haitiani.

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