Trent’anni fa, in questi giorni, entrava in vigore il Trattato di Maastricht con il quale l’Europa entrava in una nuova fase della propria storia. Dopo il difficile periodo di Eurosclerosi, a cavallo degli anni ’70 e primi anni ‘80, il progetto ripartiva con gran vigore. L’ottica eminentemente mercantilista della Comunità Economica Europea – fondata sulle quattro libertà di circolazione (merci, persone, servizi e capitali) e sulla concorrenza – lasciava il campo a un nuovo soggetto sulla scena internazionale con molte più competenze, un primo nucleo di politica estera e sicurezza comune, una maggiore attenzione alla dimensione sociale e, a tendere, una moneta unica. Non solo: era prevista anche una cooperazione tra gli Stati membri in materie delicate come le politiche di asilo, l’immigrazione, la cooperazione doganale e di polizia per la lotta al terrorismo e contro il traffico di droga, la cooperazione giudiziaria in materia civile e commerciale…
Da allora i passi avanti sulla strada dell’integrazione sono innumerevoli. Eppure, nonostante gli importanti risultati conseguiti, l’Ue è ancora una volta in un momento di stallo. È divisa sull’asse est/ovest (per il rispetto delle regole dello Stato di diritto) e su quello nord/sud (tra paesi frugali e quelli maggiormente indebitati), irresoluta dinanzi a questioni vitali come quelle afferenti alla politica migratoria, spesso bloccata dai veti a causa di obsolete regole che richiedono l’unanimità, inefficace sulla scena internazionale, anche davanti a crisi che la toccano da vicino come quelle in Ucraina e Medio Oriente.
Ora, come allora, c’è chi propone, per uscire da questo stallo, un’Europa à la carte o a più velocità, cioè un modello di integrazione differenziata a cerchi concentrici. La strada maestra è invece, a mio avviso, quella seguita con il Trattato di Maastricht e negli anni seguenti: rilanciare il progetto originario ampliando ratione materiae e allargando ratione territorii l’ambito dell’Unione. Può sembrare paradossale pensare a più Europa in un momento in cui prevalgono le pulsioni sovraniste e populiste. E invero, gli Stati membri invocano sempre di più l’autonomia strategica e si affidano a politiche economiche protezioniste che fanno ampio ricorso agli aiuti di Stato. Però, a ben vedere, nonostante l’euroscetticismo imperversante, la risposta più efficace a tutte le grandi crisi (finanziaria, pandemica, energetica e climatica) in questi ultimi quindici anni è stata sempre la medesima: più integrazione e maggiore condivisione dei rischi. Basti pensare ai diversi meccanismi di assistenza finanziaria agli Stati, all’ambiziosa politica contro i cambiamenti climatici, alle misure per approvvigionarsi dei vaccini, al programma Next Generation EU.
Le sfide odierne della transizione ecologica e della trasformazione digitale comportano ingenti investimenti difficilmente sostenibili dai singoli Stati, soprattutto tenendo conto delle regole di bilancio comuni che limitano deficit e debito nazionale. La competizione globale a base di sussidi con Stati Uniti e Cina, che al momento ci vede nettamente perdenti, ne è la prova. Analoghe considerazioni valgono per le spese per la difesa che, non potendo più fare conto solo sull’ombrello americano, sono divenute tristemente indispensabili. Insomma, è essenziale dotare al più presto l’Unione di una capacità fiscale che vada ben al di là delle limitate risorse messe a disposizione con il Quadro Finanziario Pluriennale. La strada è quella già tracciata proprio con il piano NGEU (Next Generation EU), che ha costituito un primo nucleo di capacità di bilancio finanziato in parte con risorse proprie e in parte facendo ricorso al debito comune.
L’altra grande partita che si sta giocando in questo momento riguarda l’allargamento nei Balcani, per evitare nuovi focolai di guerra alle nostre porte e limitare al tempo stesso l’influenza russa. I candidati a entrare nell’Unione sono cinque: Macedonia del Nord, Kosovo, Montenegro, Serbia e Bosnia-Erzegovina. La situazione nei paesi candidati è diversa, ma la Commissione sta spingendo fortemente per accelerare in tutti questi Stati il processo di riforme e il percorso di adesione, annunciando anche in questi giorni massicci investimenti e aperture del mercato europeo di beni, servizi e trasporti.
Naturalmente tutto ciò presuppone anche delle riforme sul piano istituzionale per rendere più efficace e snello il processo decisionale a livello europeo. Il Rapporto sulla modifica dei Trattati istitutivi dell’Unione europea – approvato il 25 ottobre dalla Commissione Affari costituzionali del Parlamento europeo e che sarà presentato alla plenaria che si terrà a Strasburgo tra il 19 e il 23 novembre – tra le tante proposte di riforma richiede il superamento del voto all’unanimità in 65 ambiti, ivi comprese le decisioni su sanzioni, fasi intermedie del processo di allargamento e altri provvedimenti sulla politica estera, materia fiscale e conclusione di accordi nei settori degli scambi di servizi, aspetti commerciali della proprietà intellettuale e investimenti esteri diretti.
Può apparire velleitario illudersi che si passi tout court al voto a maggioranza qualificata in tutte le materie. Nondimeno, la questione è ormai sul tavolo. È vero che gli Stati membri negli ultimi anni hanno dimostrato poca disponibilità a cimentarsi con una nuova difficile riforma dei Trattati, nonostante le molteplici sollecitazioni della società civile durante la Conferenza sul futuro dell’Europa, ma è anche vero che il clima sta cambiando. Da un lato, la resilienza dimostrata dall’Ue nell’affrontare le varie crisi ha contribuito a modificare il sentiment dei cittadini europei verso le istituzioni e oggi c’è una maggiore consapevolezza che senza l’Europa non avremmo potuto farcela. Dall’altro lato, le condizioni sul piano economico e geopolitico sono propizie per riprendere la coraggiosa strada intrapresa trent’anni fa con il Trattato di Maastricht.