In due contributi ravvicinati, il primo presentato nel 1937 e il secondo elaborato qualche anno dopo, benché uscito postumo nel 1949, Marc Bloch, uno dei più importanti storici del Novecento, introduceva importanti riflessioni attraverso due domande: “Che cosa chiedere alla storia?”; “A che cosa serve la storia?” Se nel primo caso si trattava dell’apertura di una conferenza, il cui testo sarebbe stato pubblicato più tardi, a cura di Grado Giovanni Merlo e Francesco Mores (Castelvecchi, 2014), nel secondo caso il quesito, rivolto da un curioso ragazzino al padre, costituiva l’incipit del notissimo Apologia della storia o mestiere di storico curato dall’amico e compagno di studi Lucien Febvre e pubblicato in Italia nel 1950 da Einaudi. Sei anni prima Bloch era stato fucilato a Lione.
Le riflessioni sull’importanza della storia maturavano dunque in un clima difficile, segnato dalla guerra. Se Fernand Braudel riteneva che per fare lo storico si debba sostanzialmente essere felici, Marc Bloch pensava che la priorità dello storico fosse quella di interessarsi alla vita. Senza chinarsi sul presente, diceva, è impossibile capire il passato. Per Bloch la storia è conoscenza disinteressata del passato, non finalizzata a un suo utilizzo strumentale nel presente. Solo così – questa la risposta del papà al ragazzino – la storia procura svago, diverte, fino a diventare maestra di vita.
Queste riflessioni continuano a riproporsi in ogni momento della nostra vita, per lo meno ogni volta che qualcuno pone in discussione il valore della ricerca storica: inutile perché incapace di “servire”… E, forse inconsapevolmente, sono state richiamate nel delineare una serie di attività legate alla neonata associazione Progetto Rialto (2019), prima tra tutte il ciclo di conferenze Le lezioni della storia ). Scopo dell’associazione, cui hanno aderito varie Università e Istituzioni, e che persegue finalità culturali e di utilità sociale, è quello di diffondere le tematiche connesse allo studio, alla valorizzazione, ma anche alla divulgazione e al recupero del patrimonio documentale, storico, artistico e monumentale dell’area e degli edifici del mercato di Rialto a Venezia. L’ambito d’interesse riguarda comunque tutta la città lagunare, a partire dal centro mercantile.
Iniziato il 30 gennaio 2020, presso le Gallerie dell’Accademia, il ciclo di conferenze si sarebbe dovuto concludere il 21 maggio successivo, ma è stato interrotto a causa dell’emergenza sanitaria. Mentre la grande partecipazione del pubblico, intervenuto ben oltre le disponibilità della sala messa a disposizione dalla Direzione delle Gallerie, diventava a distanza di pochi giorni dall’ultima conferenza un ricordo lontano, all’interno dell’Associazione cresceva la necessità di approfondire la storia di una città come Venezia sottoposta a eventi straordinari. Durante il confinamento le lunghe videotelefonate del tardo pomeriggio diventavano per alcuni associati (con la Presidente Donatella Calabi, Luca Molà e Simone Rauch oltre la sottoscritta) simpatiche occasioni non solo per progettare nuovi contenuti per il sito, ma anche per riflettere su quanto stava accadendo. Le foto di Venezia senza turisti e senza attività che riempivano i giornali ci sollecitavano a pensare alle lezioni della storia. Che cosa sarà capitato durante le emergenze sanitarie del passato, ci si chiedeva mossi da curiosità ma anche da quella sensazione di divertimento e di felicità che i grandi maestri della storia ci hanno trasmesso.
A imprimere un ulteriore stimolo a questo nostro progetto è stata ancor una volta un’intervista, quella di Amitav Ghosh pubblicata sul “Corriere della Sera” il 29 marzo 2020: nel suo ultimo romanzo ambientato anche a Venezia, riflettendo sugli effetti dei cambiamenti climatici, egli considera proprio la città lagunare come rappresentazione del disordine del nostro tempo, dello sconvolgimento, del derangement. Si trattava di un’intervista prevalentemente relativa all’acqua alta come effetto dei cambiamenti climatici in atto. A distanza di pochi mesi, la città “sconvolta” più volte da epidemie di peste che ne decimarono la popolazione e ne misero a dura prova il sistema di prevenzione e cura, poteva forse offrire testimonianze significative in merito alla sua capacità di contenere e reagire alla pandemia di Covid-19? Era questa una delle questioni di ricerca che ci siamo posti nel raccogliere i documenti, ben consapevoli del fatto (e ancora su suggerimento di Marc Bloch), che i documenti parlano solo quando li si sappia interrogare.
Che cosa poteva notare un notaio di Rialto che si muoveva in città nel 1576 a rogare testamenti? Il primo documento pubblicato a puntate nel sito (I Novi avisi di Venetia) fu redatto da Rocco Benedetti e inviato a Giacomo Foscarini, personaggio di grande prestigio e potere, per poi essere stampato l’anno dopo a Urbino e Bologna. Il notaio descrive con vivacità la confusione e lo sgomento, il ricorso ai medici padovani, la serie di provvedimenti presi dal Senato e dai Provveditori alla Sanità, gli spazi vuoti e silenziosi della città, l’attesa del picco dell’epidemia…situazioni del tutto analoghe a quelle che stavamo vivendo. Persino l’istituzione delle zone rosse, i lasciapassare, l’epidemia che perde la sua virulenza, fino alle preghiere di ringraziamento e alla posa della prima pietra della chiesa del Redentore. Infine, la vita della città che riprede a pulsare: “si sono cominciate da per tutto ad aprire le botteghe, genta senza numero da ogni canto comparisse, le pratiche de negotii delle mercantie tornano in piedi e faransi con l’aiuto di Dio più facende che mai, onde il publico et il privato si potrà in breve ristorar de danni patiti”. E per chiudere il panegirico: “le piazze e le strade sono così frequentate che chi non è stato presente alla mortalità e ruina grande traspasata non può capirla nel suo concetto intendendola dagli altri, che a suo mal grado l’hanno veduta e provata”.
Se non avessimo avuto la possibilità di frequentare archivi e biblioteche, raccogliendo documenti e archiviandoli nei nostri database, non avremmo avuto la possibilità di leggere testimonianze come questa, che ci raccontano come Venezia abbia imparato che dai disastri (ambientali, epidemici, ma anche provocati dall’uomo), dall’imprevedibile, su cui Telmo Pievani ha rilasciato un brillante commento, si può reagire. Nonostante i danni prodotti, alla fine del Cinquecento l’economia dello Stato veneziano appariva talmente vitale da “assecondare o permettere nel volgere di un paio di decenni il recupero di buona parte del deficit demografico” (con un terzo della popolazione in meno tra 1575 e il 1577) ha osservato Andrea Zannini, segnalando tra i “fattori attrattivi” quelli generati nella fase di rilancio dall’adozione di una politica di favore verso l’immigrazione. Così come, nel riflettere al di là dei Novi Avisi, abbiamo potuto verificare attraverso altre fonti l’esistenza di un forte sostegno pubblico all’incremento del mercato edilizio privato: insieme all’apertura di numerosi cantieri di Stato, ciò indica come l’edilizia venisse concepita come ‘volano’ per il rilancio rapido dell’economia della città. Del resto è ben documentato il fatto che nel Seicento le pestilenze fossero viste come occasioni per concepire nuove architetture e ridisegnare spazi di aggregazione. E non c’è dubbio che il confinamento abbia messo in evidenza, proprio quando questi elementi ci sono stati negati, come la presenza e il movimento di donne e uomini, ma anche di idee, sia necessaria per la vita di una città come Venezia, al di là della tanto lamentata mancanza di turisti.
Rinascere oggi dalle ceneri della pandemia è possibile: la storia in fondo ci conforta e ci invita a guardare al cielo con fiducia, anche se quest’anno i fuochi del Redentore non ci saranno…