Il numero di persone che vivono sotto la soglia di povertà estrema è passato da 1 miliardo 895 milioni nel 1990 a 717 milioni nel 2017. Un costante calo che, visto così, potrebbe far pensare che lentamente la povertà al mondo stia scomparendo. D’altronde questo è il primo dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile che i Paesi Onu si sono impegnati a raggiungere entro il 2030.
Un calo significativo quindi della povertà che però necessita di essere analizzato più approfonditamente. La soglia di povertà infatti attualmente è fissata a 1,90 dollari al giorno. Questo è lo standard universale per misurare la povertà globale. Si chiama International poverty line ed è l’indicatore utilizzato dalla Banca Mondiale proprio per misurare il numero di persone che vivono in condizioni di povertà estrema.
Questo indicatore negli anni è cambiato. Con l'aumentare del costo della vita infatti, sono aumentate anche le soglie di povertà, passando dal dollaro al giorno del 1990, a 1,90 $ che è l’attuale soglia introdotta nel 2015.
L'approccio multidisciplinare
Oltre a questa soglia di povertà estrema la Banca Mondiale ha anche altri due tassi di povertà con linee di reddito basate sui 3,20 dollari al giorno e sui 5,50 dollari al giorno.
Ma si può basare una cosa così importante solo su un indicatore economico? La domanda è lecita e la riflessione si rifà anche ad una questione più macro: si può basare il benessere di un Paese solo su un indicatore economico come il Pil? Questa tematica l’abbiamo già affrontata ma la risposta a questa domanda ci viene anche da uno studio di Stephan Klasen, professore all’università di Göttingen, in Germania. Già nel 2013 Klasen metteva in luce come “la povertà oggi sia ampiamente accettata come un fenomeno "multidimensionale". In altre parole, il reddito è solo un proxy imperfetto per la capacità delle persone di raggiungere livelli di benessere minimi in molteplici ambiti, come ad esempio l'istruzione e la salute”.
Il tema della povertà quindi dovrebbe essere affrontato con un approccio multidisciplinare, senza basarsi solo sulle condizioni economiche.
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A sostegno di questa tesi, lo scorso luglio Philip Alston, professore di legge alla New York University e Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla povertà estrema e i diritti umani, ha presentato un’analisi sulla povertà al Consiglio per i diritti umani dell’Onu. Alston, molto critico sul raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile, parte da una premessa: “La povertà è una scelta politica e la sua eliminazione richiede di ripensare la relazione tra crescita ed eliminazione della povertà, di affrontare la disuguaglianza andando verso la ridistribuzione, promuovere la giustizia fiscale, implementare una protezione sociale universale, rendere centrale il ruolo del governo, andare verso una governance partecipativa, ed adattare le misure internazionali sulla povertà”.
“ La povertà è una scelta politica Philip Alston, professore di legge alla New York University
Nel report Alston critica duramente “la narrativa trionfalistica mainstream che dice che la povertà estrema è vicina alla fine”. In pratica la critica è rivolta verso il dato che abbiamo visto ad inizio articolo, quel -60% circa della povertà estrema nel mondo dal 1990 ad oggi.
Secondo lo studioso di diritto internazionale questo trionfalismo non sarebbe sostenuto dai fatti in quanto basato solamente sulla misura della Banca Mondiale. “Misure più accurate - si legge nel report di Alston - mostrano solo un lieve calo negli ultimi 30 anni del numero di persone che vivono in povertà estrema. La realtà è che miliardi di persone devono vivere avendo poche opportunità, innumerevoli umiliazioni, scarsità di cibo e morti prevenibili, rimanendo così troppo poveri per godere dei diritti umani fondamentali”.
La critica all'international poverty line
Negli ultimi due secoli la qualità della vita è migliorata per milioni di persone, ma questo non può significare che la povertà sta per essere eliminata. La narrazione mainstream, secondo il professore australiano, si baserebbe quindi solo sull’international poverty line, secondo la quale le persone in povertà estrema nel mondo sarebbero meno del 10% del totale.
L’IPL però è una misura basata su una media tra la soglia di povertà di alcuni tra i Paesi più poveri del mondo, molti dei quali sono nell’Africa Sub-sahariana. Un’ulteriore critica mossa da Alston all’IPL è che questa misura “non si basa su una valutazione diretta del costo dei beni essenziali, ma è un valore assoluto e costante che è espresso utilizzando la Parità di potere d’acquisto”. La PPP è un indice utilizzato per confrontare il livello dei prezzi in diverse località. E quindi un indice puramente economico che rimane al di sotto delle soglie di povertà nazionali. Per capire meglio questo passaggio facciamo un esempio concreto: gli Stati Uniti hanno un tasso di povertà dell’1,2% secondo l’IPL, contro il 12,7% secondo gli indicatori nazionali.
Anche il nostro Paese ha un tasso di povertà dell’ 1,9% secondo l’indicatore della Banca Mondiale mentre analizzando i dati Istat vediamo come siano quasi 1,7 milioni le famiglie in condizione di povertà assoluta, con una incidenza pari al 6,4% e per un numero complessivo di quasi 4,6 milioni di persone.
Abbiamo capito quindi come il dato della Banca Mondiale possa essere fallace, riportando con una sottovalutazione il tasso di povertà.
Lo studio di Robert Allen
Nel report si propone anche un ulteriore studio dell’economista Robert Allen. Il ricercatore dell’Oxford Centre for Economic and Social History, è partito da una domanda basilare: quanto costa vivere nutrendosi con una dieta bilanciata di 2.100 calorie al giorno e avendo almeno tre metri quadrati di spazio? Secondo Allen costerebbe 2,63 dollari nei Paesi in via di sviluppo e 3,96 dollari in quelli ad alto reddito. Cifre ben più alte rispetto alla soglia della povertà estrema della Banca Mondiale che, come abbiamo visto prima, è di 1,9 dollari al giorno.
Lo studio di Micheal Lubrano e Zhou Xun
Sono diverse le soglie di povertà calcolate da diversi economisti, tra le quali troviamo, oltre a quelle di Allen, quelle proposte da Michel Lubrano e dall’economista cinese Zhou Xun della Jiangxi University of Finance and Economics. Nello studio “A Bayesian Measure of Poverty in the Developing World”, pubblicato nel 2017 sulla Review of Income and Wealth i due economisti hanno stabilito che la soglia della povertà mondiale è di 1,48 dollari per i Paesi più poveri. In questo modo i “poveri” sarebbero in numero superiore rispetto a quelli riportati dalla Banca Mondiale.
“ Il primo degli obiettivi di sviluppo sostenibile è proprio quello di eliminare la povertà, ma questo non può tradursi solamente in uno slogan
Stabilire un indice di povertà quindi abbiamo capito essere impresa ardua. Non si può basare tutto solo su un aspetto puramente economico ma al tempo stesso è difficile trovare delle misure oggettive che possano andare bene a livello globale. Quello che si può fare però, secondo Alston, oltre a ricercare degli indicatori che possano essere più ricchi rispetto al solo dato economico, è mutare i termini trionfalistici con cui si racconta la lotta alla povertà. Il primo degli obiettivi di sviluppo sostenibile è proprio quello di eliminare la povertà, ma questo non può tradursi in uno slogan che purtroppo noi italiani conosciamo bene.