SCIENZA E RICERCA

L’uomo plasma la Terra da almeno 12.000 anni (e forse è un bene)

Che l’uomo abbia assunto un atteggiamento distruttivo nei confronti della natura a partire dalla Rivoluzione Industriale è un’opinione comune, sostenuta, nel tempo, da molti storici e scienziati. Come se, prima di allora, le società umane fossero sempre vissute in pace con il mondo naturale – in quanto prive dei mezzi sufficienti per dominarlo, per piegarlo ai propri sforzi.

Fino all’affermazione della società industriale moderna, dunque, il mondo umano e il mondo naturale avrebbero proceduto perlopiù su linee parallele: da una parte le costruzioni umane, relativamente poco estese, e dall’altra la vastità della natura selvaggia e incontaminata.

È, questa, una narrazione piuttosto diffusa; eppure, sono sempre più numerose le evidenze che suggeriscono che la storia sia andata diversamente. Un’interessante ricerca pubblicata sulla rivista PNAS, che ha come primo firmatario Erle Ellis, biologo e membro dell’Anthropocene Working Group, racconta in che modo si sia dipanato, nel corso della storia evolutiva della nostra specie, il rapporto tra uomo e ambiente. La conclusione dei ricercatori, sulla base di numerosi dati e osservazioni, è che le attività umane modificano la natura da ben prima della Rivoluzione Industriale: l’uomo avrebbe plasmato gran parte della superficie terrestre a partire da circa 12.000 anni fa.

Uomo e natura: un matrimonio felice?

I dati archeologici e paleoecologici analizzati dai ricercatori mostrano come «già all’inizio dell'attuale periodo interglaciale, 11.600 anni fa, tutte le società umane interagivano con il biota e con l’ambiente attraverso modalità che hanno modificato le dinamiche evolutive, gli ecosistemi e il paesaggio». È quindi corretto parlare, già per l’epoca preistorica, di ambienti socio-ecologici, in cui le pratiche culturali umane possono essere annoverate tra i fattori di cambiamento evolutivo. Le attività degli antichi gruppi umani – cacciatori-raccoglitori, pastori o agricoltori – hanno avuto, in molti casi, effetti positivi sugli ecosistemi sottoposti a quelle trasformazioni. In molti casi, infatti, le attività umane a scopo di sostentamento hanno contribuito a creare un rigoglioso mosaico di paesaggi bioculturali, accrescendo i tassi di biodiversità e contribuendo a costruire e mantenere un ambiente naturale più ricco, diversificato e resiliente.

In diversi luoghi del pianeta questo modello, fondato sui saperi tradizionali e sulle culture locali, ha preservato la ricchezza bioculturale per millenni. Al contrario, spiegano gli autori dello studio, «l’emergere e il diffondersi di società industriali sempre più globalizzate ha accelerato la transizione verso paesaggi culturali come quelli attuali, sempre più intensamente sfruttati e omogenei, plasmati dalle catene di approvvigionamento globali, dalla meccanizzazione, dal ricorso a fertilizzanti e pesticidi chimici, tutte prassi che hanno portato ad habitat ecologicamente semplificati e all'omogeneizzazione biotica, anche attraverso la diffusione, intenzionale o meno, di specie aliene in tutto il mondo».

I ricercatori hanno prodotto una valutazione quantitativa del livello di antropizzazione della Terra nel corso dei millenni, prendendo in considerazione non i semplici ecosistemi, ma gli antromi, cioè i biomi antropizzati. Il risultato meno inaspettato è quello relativo al presente: nel 2017, più dell’80% della superficie terrestre era stato trasformato, seppur in diversi gradi, dalla mano umana. Di questo 80%, il 57% consiste oggi di “antromi intensivi” (Intensive Anthromes: ambienti i cui terreni sfruttati in maniera intensiva sono più del 20%), il 30% di “antromi coltivati” (Cultured Anthromes: ambienti il cui tasso di terreni sfruttati intensivamente non supera il 20%) e solo il 19% di “terre selvagge” (Wildlands: ecosistemi completamente liberi da ogni intervento umano). I risultati dello studio sono innovativi soprattutto per quanto riguarda la ricostruzione storica di come è mutata la biosfera sotto l’influenza dell’azione dell’uomo: in contrasto con le precedenti ricostruzioni storiche, secondo le quali ancora 6.000 anni fa l’82% delle terre emerse era incontaminato, i dati raccolti dalla ricostruzione spaziale realizzata dai ricercatori mostrano come già 10.000 anni fa le Wildlands coprissero solo il 27,5% delle terre emerse.

Ciò significa che, ben prima dell’inizio della Storia umana, la maggior parte degli ecosistemi terrestri aveva ospitato popolazioni umane ed era stata plasmata dalle attività di costruzione di nicchia di questo animale. Sembra perciò errata la ricostruzione secondo cui l’impatto umano avrebbe determinato una rapida trasformazione della natura incontaminata in antromi intensivi: piuttosto, i risultati delle indagini lasciano immaginare l’esistenza di «processi a lungo termine di progressiva intensificazione dell’uso dei terreni, legati all’aumento della popolazione, nel contesto di paesaggi già abitati ed utilizzati, e di un uso sempre più intensivo, su scala globale, dei paesaggi terrestri attraverso la colonizzazione, lo sfruttamento e l'estrazione di risorse dalle popolazioni locali da parte di economie agricole e industriali su larga scala».

Cosa è “naturale”?

Alcuni ecosistemi in particolare sono stati oggetto, nel corso dei millenni recenti, di un continuo e progressivo sfruttamento e modellamento da parte delle popolazioni umane: foreste temperate e tropicali, savane, praterie erano, con ogni probabilità, già estesamente coltivate anche prima di 10.000 anni fa. Nel corso del tempo, all’antropizzazione sono andati incontro anche gli ecosistemi più selvaggi, ma nella maggior parte dei casi la trasformazione è consistita nel passaggio da antromi coltivati ad antromi intensivi, in un processo che appare, nonostante l’evidente accelerazione verificatasi a partire dal XIX secolo, piuttosto graduale.­

Simili scoperte hanno implicazioni teoriche di non poco conto: se è vero che l’uomo modifica attivamente la natura da millenni, sembra impossibile non considerare questo mammifero bipede un’autentica forza evolutiva. Inoltre, se anche gli ambienti che oggi definiamo “naturali” – si pensi, ad esempio, a molte aree collinari e montuose dell’Italia interna – recano l’impronta di un antico contatto con l’essere umano, la categoria stessa di “naturale”, intesa in contrapposizione con quella di “culturale” o “umano”, perde di significato.

Inoltre, controintuitivamente, fra gli ecosistemi che risultano frutto di un più lungo e intenso rapporto di coevoluzione con l’essere umano vi sono molti territori oggi considerati aree protette: «Se considerati unitamente, i nostri risultati – commentano gli autori – indicano che i paesaggi culturali di secoli e millenni fa sono strettamente collegati, e potrebbero aver plasmato, l’attuale distribuzione delle aree ad alta biodiversità, così come della biodiversità dei vertebrati e delle specie a rischio di estinzione». Molto interessante, inoltre, è il declino di questa correlazione tra culture tradizionali e biodiversità, registrato soprattutto a partire dal 1500, che potrebbe suggerire come, in seguito allo Scambio Colombiano e all’inizio della colonizzazione europea del pianeta, si sia verificato un profondo mutamento nella correlazione tra ambienti antropici e biodiversità.

Rinnovati equilibri

Questo studio, come accennavamo, ha notevoli implicazioni teoriche. Esso smentisce, infatti, l’idea che la specie umana abbia un effetto invariabilmente distruttivo sul mondo naturale, mostrando invece come modelli culturali basati su uno sfruttamento non intensivo delle risorse possano addirittura avere effetti benefici sugli ecosistemi. In generale, dunque, «l’aver plasmato ecosistemi e paesaggi attraverso pratiche culturali non è, di per sé, la causa primaria dell’attuale crisi di estinzione, né può esserlo la conversione delle aree incontaminate, che 10.000 anni fa erano rare quasi quanto lo sono oggi. La causa principale del declino della biodiversità è, almeno in epoca recente, l’appropriazione, la colonizzazione e lo sfruttamento intensivo di terre già abitate, utilizzate, modellate e rimodellate da società del presente e del passato».

Riconoscere l’ambivalenza dell’impatto umano sulla natura è essenziale, oltre che sul piano teorico, anche nella pratica: tale consapevolezza, infatti, consentirebbe ad esempio di riconoscere nelle odierne comunità indigene non solo una preziosa risorsa scientifica e culturale, ma anche un valido aiuto per le politiche di conservazione. Ad avere un impatto negativo sul mondo naturale non è la generica presenza umana – anche noi, dopotutto, siamo “naturali” – ma l’attuale sistema di produzione e consumo, che adotta nei confronti della biosfera un atteggiamento predatorio. «Tutti gli sforzi per raggiungere gli ambiziosi obiettivi delle agende di conservazione e ripristino degli ecosistemi – concludono i ricercatori – non potranno avere successo senza riconoscere in modo esplicito, accogliere e recuperare i profondi legami culturali e sociali proprio con quella biodiversità che vogliono proteggere».

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