CULTURA
Messi al museo dell’emigrazione italiana di Recanati, le reti del meticciato
Colline marchigiane. Sullo sfondo: Recanati
Domenica 18 dicembre 2022 l’Argentina ha vinto i campionati mondiali di calcio, capitano della squadra Lionel Messi, uno dei più illustri maestri del pallone. Si tratta probabilmente dello Stato con la nazionale di calcio, soprannominata la Selección ("la selezione") o l'Albiceleste ("la biancoceleste"), più titolata al mondo (forse insieme al piccolo confinante Uruguay), avendo vinto quindici Coppe America e tre Coppe del mondo (Argentina 1978, Messico 1986 e appunto Qatar 2022), oltre a svariate altre competizioni. Lionel Andrés Messi Cuccittini, detto Leo Messi (Rosario, 1987), è in questo momento il centrocampista attaccante più famoso e celebrato al mondo (in campo prima a Barcellona, poi a Parigi), pare abbia origini italiane, marchigiane a esser precisi. Se aveste visitato il museo dell’emigrazione di Recanati vi veniva raccontato tutto già dal giorno dell’apertura, dieci anni fa, nel 2013.
Fra i personaggi di una carrozza su un treno delle Ferrovie dello Stato di fine Ottocento potevate e potete ascoltare sei minuti di un video interpretato da un bravo attore, le frasi attribuibili all’agricoltore 28enne Angelo Angel Messi, nato a Recanati nel 1866, figlio dei poveri mezzadri Pacifico e Lucia. Scelse di emanciparsi dalla servitù agraria, insieme al fratello Antonio cercò lavoro in un paesino attiguo (Montefano), incontrarono le sorelle Maria e Caterina Latini, si sposarono il 21 maggio 1892, vita serena e grama, ma ricevettero la lettera del cognato Pacifico da Rosario. Partirono da Genova a primavera inoltrata dell’anno successivo, Maria era incinta di cinque mesi e arrivarono oltre un mese dopo a Buenos Aires, dopo un umiliante viaggio nei transatlantici con nette separazioni di classi, in inverno, l’11 giugno 1893. Iniziò un’altra vita: fatiche, discriminazioni, lavori, ricordi, integrazione nella stessa parrocchia del fratello delle mogli, Maria a partorire due gemelli, poi altri tre figli (due morti subito), il terzo innamorato del calcio, svariate generazione prima di oggi.
Come in ogni occasione di partite decisive, adesso che Leo Messi ha guidato il suo paese alla vittoria, tutti gli organi d’informazione hanno riparlato della sua italianità, magari aggiungendo che anche l’allenatore dell’Argentina ha lontane origini marchigiane, un po’ come papa Francesco piemontesi. Giusto saperlo, simpatico approfondire, il legame dell’Italia con l’America Latina è fatto di continui scambi, in un senso e nell’altro, con o (più spesso) senza ritorno, con altri incroci, un viavai. Del resto non c’è luogo, individuo, lingua, cultura al mondo che non siano meticci. Ormai non significa molto, è solo una legittima curiosità, quel che molto serve è riconoscerci come mescolati, capire che le migrazioni sono sempre state uno straordinario fattore evolutivo per noi sapiens ed è bene tramandarne storia e geografia. Non a caso abbiamo iniziato un viaggio nei musei dell’emigrazione italiana.
Oggi giriamo ancora per il MEMA di Recanati, il Museo dell’Emigrazione Marchigiana, aperto nel 2013 (grazie a collezioni preesistenti), su sollecitazione di gruppi di emigrati e su iniziativa del comune e della regione, gestito dal 2017 con concessione privata a un’esperta cooperativa di Perugia (Sistema Museo), che lavora in molte realtà dell’Italia soprattutto centrale, e a Recanati gestisce le varie istituzioni culturali pubbliche comunali oltre che l’Ufficio turistico. All’interno della splendida Villa Colloredo Mels esiste una bella Pinacoteca e il biglietto è unico col MEMA (esistendo pure varie combinazioni con altri musei locali e maceratesi). Il museo si snoda su due livelli, uno a piano terra e un altro che si estende nelle ex cantine della villa.
La visita è guidata da postazioni multimediali che interagiscono con lo spettatore, un treno con tre vagoni racconta cinque storie vere di marchigiani e marchigiane che hanno lasciato la propria regione alla volta dell’Argentina, del Belgio, degli Stati Uniti (due delle quali si possono ascoltare anche sul sito, fra cui Angel Messi ovviamente). Più avanti un touch screen consente di visualizzare, leggere e ingrandire documenti, fotografie, diari e memorie donati al museo dalle ACLI, dalle Associazioni di marchigiani all’estero e dai discendenti di alcune famiglie di emigranti. Un commovente viaggio indietro nel tempo alla scoperta degli usi, dei costumi e delle tradizioni che appartengono alla storia di ognuno: come detto, il fenomeno della migrazione ha interessato in vario modo praticamente tutta la popolazione residente.
Dopo l’area accoglienza (con una piccola biblioteca di volumi che possono anche essere prestati), i primi pannelli e le prime foto documentano le forme ottocentesche del vituperato scafismo d’emigrazione verso l’Italia, abbastanza simili a quelle che oggi ci scandalizzano nell’immigrazione verso l’Italia, meglio soffermarsi a lungo su chi stava per diventare immigrato altrove, più o meno clandestinamente. La prima sezione del museo è intitolata alla “informazione migratoria”, vediamo nel dettaglio, riguarda le forme attraverso cui un secolo e mezzo fa giungeva notizia della possibilità di espatriare, la consapevolezza che fuori dai confini nazionali era forse possibile ricostruire un’esistenza, trovare un lavoro, acquistare la terra che si lavorava, magari liberarsi pure dalla povertà (allora nel nostro paese da poco unito, ora nei paesi africani da poco liberati dal colonialismo).
L’informazione migratoria poteva essere la pubblicità degli agenti di emigrazione che si muovevano tra le campagne e i borghi al soldo degli armatori e delle grandi compagnie di navigazione per reclutare emigranti, spesso con inganni e raggiri sia sui modi del viaggio sia sulla possibilità concreta di lavoro degno. Nei primi anni del “grande esodo” vendettero una “terra promessa”, l’America le Americhe ancora sconosciute ai più, magnificandone le meraviglie. Quando ormai la consuetudine all’espatrio si stava consolidando, il racconto “fantastico” non funzionava più e si puntava sulla scelta del piroscafo della “loro” compagnia, descritto come meno costoso, più veloce, più comodo o con un menù di bordo che offriva carne tutti i giorni. Il fatto è che tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento il costo di un passaggio “minimale” per le Americhe era pari al valore di varie mensilità della paga di un lavoratore agricolo, una cifra molto alta, che metteva in crisi famiglie già povere, induceva a collette (e aspettative) di famiglie allargate e comunità, imponeva una generale svolta di vita intorno all’emigrazione di uno o pochi sapiens (anche per i tanti non migranti).
Chi nelle Marche trovava infine le risorse, di solito cercava di raggiungere il maggiore porto italiano in Liguria (una minoranza invece in Campania a Napoli), attraverso comunque un lungo viaggio oltre gli Appennini verso il Tirreno (per la maggior parte percorso in treno). Dal capoluogo ligure poteva imbarcarsi sia sulle navi per il Nord America (Ellis Island) che per quelle per il Sud America (verso Rio De Janeiro, Santos, Porto Alegre, Montevideo e Buenos Aires), oppure prendere un altro treno per il Nord Europa. Nemmeno Genova fu un posto necessariamente tranquillo per chi vi transitava: vi si svilupparono ovviamente affari e iniziative volti a “sfruttare” la presenza temporanea della massa in attesa di imbarco. Potevano tentare di “lucrare” sulla loro attesa i proprietari di ostelli, spacci, trattorie, barbierie e chi gestiva altri servizi d’intrattenimento e preparazione. Più a lungo durava la sosta, più alto sarebbe stato il volume di affari per chi aveva posti letto, trattorie, negozi, uffici o commerci a ridosso del porto; in taluni casi le attività si configurarono storicamente come parziali truffe ai danni dell’imminente emigrante italiano.
La sollecitazione a emigrare poteva giungere attraverso lettere di richiamo, ossia lettere di coloro che si trovavano già all’estero e invitavano parenti o conoscenti rimasti in patria a raggiungerli, garantendo loro un lavoro e una sistemazione almeno provvisoria, lette non soltanto dal destinatario, ma da interi gruppi sociali composti da più famiglie legate da rapporti di parentela o di vicinato, diffondendosi a moltissimi soggetti nella comunità di villaggio, nei quartieri popolari delle città e nei borghi, volano di una scelta che acquistò una dimensione sempre più vasta fino a divenire un fenomeno di massa. Altri veicoli di informazione migratoria potevano essere i racconti di chi ritornava, per un poco o per sempre; oppure le proposte scritte di modelli di contratto agricolo per un’opera di colonizzazione lontana; o ancora atti di chiamata ufficiale provenienti da un parente residente all’estero.
Peculiare è il caso del biglietto prepagato (prepaid), che comparve alla fine dell’Ottocento, apparentemente risolvendo il problema del costo della traversata per gli emigranti più poveri, ma provocando ben peggiori problemi all’arrivo. I grandi proprietari terrieri americani, attraverso agenzie di mediazione che operavano sulle due sponde dell’Atlantico, inviavano ai braccianti i biglietti per la traversata in terza classe, di fatto un anticipo (prestito) che doveva essere restituito con il lavoro negli anni successivi. Chi accettava l’offerta firmava un contratto d’impegno: partire e lavorare nelle piantagioni alle condizioni fissate dai proprietari terrieri americani. Per l’immigrato italiano nella maggior parte dei casi il debito tendeva ad aumentare dopo l’arrivo: intere famiglie di contadini divenivano vittime dello sfruttamento di padroni senza scrupoli, col divieto di abbandonare il fazzoletto di terreno loro affidato, una moderna forma di schiavitù. Accadde soprattutto nella emigrazione verso il Brasile, nelle piantagioni di caffè, e verso il sud degli Stati Uniti, nelle piantagioni di cotone e tabacco.
E non abbiamo ancora parlato dell’emigrazione italiana clandestina, clandestini alcuni di noi italiani nei confronti delle autorità pubbliche italiane, poi talora anche clandestini all’estero. Il “reclutamento” avveniva attraverso agenti irregolari operanti per conto di compagnie marittime che imbarcavano fuori dai confini nazionali, tentando di sfuggire ai controlli delle autorità italiane (previsti poi ufficialmente da una legge del 1901). Le compagnie (capitali americani, svizzeri, inglesi, francesi e tedeschi) imbarcavano emigranti da vari porti come Marsiglia, Le Havre, Anversa, Amburgo: promettevano viaggi più brevi e prezzi più bassi, addirittura qualche volta di poter saltare i controlli sanitari allo sbarco. Gli emigranti italiani dovevano raggiungere località oltre il confine, come Chiasso o Modane (senza rivelare il vero motivo del viaggio) e da qui, in treno, raggiungere i porti d’imbarco.
Una buona parte dei nostri emigranti di allora non era solita aver viaggiato prima di partire, alcuni non avevano mai visto il mare, alcuni di loro mai navigandovi sopra. I racconti delle traversate, lettere, diari e narrazioni varie, sono spesso drammatici, quello di un sacerdote potete ascoltarlo al MEMA, scuoterebbe chiunque, soprattutto per i picchi di differenza fra ricchi e benestanti che stavano sopra e chi molto più sotto, fra sporcizia e malattie, senza vedere il mare e con scarso cibo. Per cortesia, quando vedete un barcone (dove non esistono coperture e rimangono solo quarte classi), pensate un attimo a questi concittadini in mano agli scafisti dell’epoca: quel che conta sono i canali regolari di uscita e di ingresso, una migrazione più sicura e comprensibile per tutti, come prevedono finalmente i Global Compact.