Foto: Contrasto/Stefano Dal Pozzolo
Il primo museo nazionale dell’emigrazione italiana fu un esperimento con alcuni aspetti ridicoli, aperto meno di sette anni in un spazio bello ma in affitto, presto chiuso nel 2016 e poi totalmente ripensato, in un’altra città, con nuove titolarità istituzionale e impostazione scientifica, in un contesto molto diverso. La vicenda transitoria suscitò a quel tempo un qualche interesse di pubblico e motivate polemiche scientifiche e amministrative. Sembra oggi come se non fosse mai avvenuta, meglio ripercorrerne qualche tratto. Il 23 ottobre 2009 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano inaugurò a Roma, presso il Vittoriano, la prima versione del Museo nazionale dell’Emigrazione Italiana, un museo promosso in modo inusuale dal Ministero degli Affari Esteri, (pur in collaborazione del Ministero per i Beni e le AttivitàCulturali), con l’esplicito obiettivo di affermare ufficialmente che l’emigrazione è parte essenziale della storia d’Italia. Era poco più che una mostra e fu chiuso dopo pochi anni e parecchie critiche, culturali e giornalistiche (fu definito “tappabuchi espositivo”).
Dietro la prima e provvisoria apertura del museo MEI (anche allora aveva lo stesso acronimo attuale) vi erano alle spalle un finanziamento pubblico, un intenso lavoro di ricerca finalizzata (studiosi e associazioni degli italiani all’estero) e un dibattito istituzionale e parlamentare. Se ne trova traccia negli atti della Camera dei Deputati, in alcuni volumi, in rari articoli di riviste e nello stesso catalogo del museo (mentre l’attuale MEI non ha ancora un catalogo). Quindici anni fa, analizzando i testi di storia utilizzati nelle scuole italiane si era verificato che all’emigrazione venivano dedicate solo poche righe (chissà se, quanto e come è modificata la situazione negli ultimi quindici anni). Alcune grandi enciclopedie erano capaci di raccontare la storia d’Italia senza nemmeno citare l’emigrazione (tanto meno l’immigrazione, ovviamente). Quando fu chiesto agli alunni di una scuola superiore di Padova (in quel Veneto che è stata la regione che ha inviato più emigranti nel mondo: 3,2 milioni di persone) di indicare alcuni esempi di emigrati, gli unici nomi ricordati risultarono quelli di alcuni calciatori o allenatori di calcio che lavoravano in Inghilterra, in Germania o in Spagna.
Ne abbiamo già parlato (per esempio qui, partendo dal grande calciatore contemporaneo Lionel Messi, di lontane origini recanatesi:). Fra l’altro, come accennato, una sottovalutazione analoga riguarda gli immigrati nella storia d’Italia, come se essere italiani fosse una condizione e un’identità fissata da qualcuno per sempre sul nostro territorio e non un continuo intreccio di migrazioni e mescolanze. Da quasi una cinquantina d’anni nel mondo e una trentina in Italia, i musei delle migrazioni hanno cercato di squarciare il velo di silenzio che ha accompagnato l’emigrazione da ogni territorio verso altre mete, l’emigrazione dall’Italia verso l’estero in questi oltre 160 anni con una parallela indipendente immigrazione in Italia, come se coloro che sono partiti non contassero più niente per i concittadini restati (noi in Italia) e coloro che sono arrivati non avessero in linea di massima altrettanto valore di ogni residente e di ogni nativo.
Senza il riconoscimento del ruolo svolto anche solo dall’emigrazione, la storia d’Italia (e forse di ogni attuale Stato nazionale) è incompleta e sbagliata: nel nostro caso, le decine di milioni di cittadini italiani che partirono (circa 29 milioni in vari decenni, contadini, operai, mezzadri, piccoli imprenditori), in particolare a cavallo fra Ottocento e Novecento, hanno portato con sé valori e tradizioni e costruito una complessa relazione con i diversi stili di vita dei paesi di destinazione, creando un nuovo legame con la patria natia, nuove identità e appartenenze, meticce come quelle di quasi tutti i circa duecento paesi del mondo, in differenti momenti della loro storia nazionale. Italiani all’estero, come ci sono irlandesi all’estero, polacchi all’estero, albanesi all’estero, marocchini all’estero, e così via: senza tenerne conto (insieme a quella degli stranieri in Italia) non si capisce nemmeno la storia contemporanea del mondo.
La concreta realizzazione del museo nazionale dell’emigrazione divenne praticabile solo tra le iniziative di celebrazione del 150° anniversario della proclamazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861) e del 100° anniversario dell’inaugurazione del Vittoriano (4 giugno 1911), occasioni di riflessione sulla storia, l’attualità, il futuro dell’essere e del sentirsi italiani all’inizio del nuovo millennio, caratterizzato da forti processi integrativi (come l’appartenenza a una più globale identità europea e mondiale) e da altrettanto forti spinte nazionalistiche e localistiche (come la tentazione del protezionismo e della chiusura delle frontiere dinanzi agli “stranieri”). Del resto, la stessa unificazione dell’Italia non fu un fatto circoscrivibile a una data storica, bensì un lungo e faticoso processo per assumere la ricchezza meticcia (vissuta spesso in maniera conflittuale) della diversità geografica, linguistica, socio-economica e culturale, con la proclamazione di un’unità fondata sul sentimento di appartenenza a un territorio e a un popolo più ampi delle proprie origini locali e regionali.
Nella XIII (1996-2001) e XIV legislatura (2001-2006) furono avanzate da esponenti del governo e del parlamento proposte (anche di legge) per istituire una rete museale dell’emigrazione. Il 26 ottobre 2007 si svolse un convegno internazionale presso il Ministero degli Esteri che, ribadendo la necessità di realizzare il museo, poneva le basi per una iniziale copertura finanziaria, definita poi nella finanziaria di fine 2007 (2,8 milioni di euro); cambi di governo (o legislatura) e tagli di spesa diminuirono l’ammontare del finanziamento previsto per la realizzazione del museo (alla fine 0,7). Nel marzo 2009 di Stato fu dato il definitivo via libera al comitato scientifico di elaborare una proposta di percorso storico dell’emigrazione italiana e si capì subito che quanto realizzato al Vittoriano in poco più di 6 mesi, sarebbe stato precario e provvisorio: il lavoro del comitato non fu valorizzato e molti si dimisero, l’impostazione non fu più rivolta all’intreccio dell’emigrazione con flussi opposti dagli stessi paesi d’immigrazione o altri flussi immigratori, la sede era in affitto e disponibile solo per pochi anni. Il museo venne inaugurato autorevolmente ma, nonostante sporadiche proposte di legge presentate nelle successive legislature, non furono mai normati i fondi da destinare al suo funzionamento e la competenza all’amministrazione degli Esteri si rivelò inopportuna.
Da tanti decenni il mondo dell’emigrazione italiana chiedeva alle istituzioni di dare un riconoscimento concreto all’immane contributo che il loro esodo umano aveva dato, anche a chi era rimasto in Italia, parente o concittadino. Fra i materiali che accompagnarono esplicitamente la preparazione concreta del museo vi fu nel 2007 un numero speciale della rivista trimestrale del Centro Studi Emigrazione di Roma (un’istituzione sorta nel 1963 e divenuta Comitato Scientifico del futuro museo), dedicato a I musei delle migrazioni, a cura di Lorenzo Prencipe, con un saggio introduttivo e la breve analisi comparata di nove importanti musei fra quelli esistenti negli altri continenti, di undici musei europei, di quindici musei o centri di documentazione già operativi in Italia a livello regionale o locale, oltre a cinque interessanti saggi finali di storici e studiosi. Sul piano nazionale fu pure realizzato un censimento istituzionale degli enti impegnati nell’azione di riflessione e di tutela dell’emigrazione italiana, dal quale emerse una realtà variegata di enti, sia scientifici che associativi, sia di natura istituzionale che privata, sia con ambito d’attività locale che nazionale ed internazionale (32 Enti museali di ambito locale e regionale; 32 Centri di studio, ricerca, documentazione ed informazione; 138 Associazioni legate all’emigrazione italiana).
Le sezioni visitabili al MEI presso il Vittoriano erano cinque, cronologiche: I. Le origini; II. Caratteristiche delle migrazioni pre-unitarie e della realtà italiana, al momento dell’Unità del paese (circa di 2 milioni di espatri tra il 1861 e il 1875), sia dal punto di vista economico-sociale-culturale che della politica dello stato italiano verso l’emigrazione; III. Emigrazione italiana di massa (1876-1915, 14 milioni di emigranti) raccontata attraverso il lavoro ed i momenti tipici dell’atto emigratorio: reclutamento, porto d’imbarco, viaggio, arrivo, abitazione, lavoro, discriminazioni, processo d’inserimento; IV. Emigrazione nel periodo delle due guerre mondiali (1916-1945, 4,3 milioni di emigranti): prima guerra mondiale; politiche restrittive americane; crisi economica del 1929; fascismo, colonialismo e migrazioni interne; seconda guerra mondiale; V. Emigrazione italiana nel secondo dopoguerra (1946-1976, 7,4 milioni d’emigranti): l’emigrazione (soprattutto in Europa) la ricostruzione ed il decollo economico, l’accrescimento della legislazione e della organizzazione sociale a protezione del migrante, le migrazioni interne, i ritorni (4,3 milioni, dal 1973 i rientri superano annualmente le partenze).
In contemporanea con la retorica inaugurazione dell’autunno, fu pubblicato dal ministero degli Affari esteri un costoso catalogo del MEI (due anni dopo pure un opuscolo illustrativo), quasi cinquecento pagine in grande formato, tantissime foto e grafici, impianto chiaro seppur solo emigratorio, a cura di Alessandro Nicosia (Presidente di “Comunicare Organizzando” e direttore del MEI, che firma l’introduzione) e Lorenzo Prencipe (Presidente del Centro Studi Emigrazione di Roma e coordinatore del volume). Il catalogo contiene sette lunghi testi di approfondimento, opera di Prencipe e Sanfilippo (“Per una storia dell’emigrazione italiana: prospettiva nazionale e regionale”); Maria Grazia Ostuni (“Una storia per immagini”), Capocaccia (“Il viaggio dell’emigrante: verso un archivio nazionale informatizzato”); Maddalena Tirabassi (“Che genere di storia”); Saija (“Italiani nel mondo: dall’appartenenza etnica alla scelta etica”); Salvatori (“Italiani nel mondo: geografia di una diaspora”); Catia Monacelli (“L’emigrazione nel cinema italiano”).
Completano il catalogo del museo provvisorio quasi cento pagine dedicate a schede delle varie specifiche prospettive regionali (con dati e bibliografie) e la presentazione del percorso museale nelle cinque sezioni, in parallelo con quello che era l’esposizione materiale contenuta nel Vittoriano per qualche anno: un primo segmento con le sezioni cronologiche articolate con reperti storici, fotografie, lettere autografe, giornali e riviste d’epoca, filmati d’archivio, musica d’epoca e pannelli esplicativi; un secondo segmento con spazi (teoricamente) gestiti dalle regioni, coinvolgendo le relative istituzioni e associazioni; un terzo segmento con le aree tematiche e (teoricamente) interattive su cinema, letteratura, musica, oggetti rari. Del resto, fare “memoria” della realtà emigratoria non poteva illudersi di fossilizzare in suggestive immagini o filmati di repertorio un’avventura politica mai da considerarsi finita. Significava, invece, dotarsi di uno strumento e un’opportunità, soprattutto per i giovani: un luogo in cui passato, presente e futuro fossero legati insieme dal filo vitale rappresentato dalla memoria che non è mai solo “ricordo nostalgico di tempi andati”, ma sentirsi a casa anche tra persone di origini ed esperienze diverse.
Al Vittoriano il museo fu presto chiuso (il 31 marzo 2016), tutto venne inscatolato e restituito ai diversi prestatori. Dimenticato? Successivamente è stata realizzata un’operazione abbastanza diversa e lontana, qui spiegata e documentata, da poco aperta e abbastanza fertile. Tuttavia, la vicenda 2009-2016 non ha mai avuto un ripensamento critico, né sul piano scientifico né sul piano istituzionale: accade che le cose finiscono e non lascino residui materiali, inizino e non segnalino percorsi precedenti! Non solo in Italia: i diversi musei delle migrazioni, sorti in numerosi paesi del mondo, stentano a diventare contributi capaci di mostrare il carattere diacronico e asimmetrico del fenomeno migratorio, di mettere in relazione il passato con il presente (la memoria storica con la comprensione della realtà contemporanea, l’appartenenza identitaria locale, regionale, nazionale con le molteplici influenze culturali proprie delle società plurali), di sottolineare il diffuso e permanente meticciato ovunque.
In diversi paesi (purtroppo non ora in Italia) il concetto di cittadinanza è tornato ad assumere un ruolo importante nel favorire l’integrazione e la gestione delle differenze (ovvero coniugando appartenenza e differenza), da una parte l’accettazione da parte dell’immigrato dei fondamenti su cui lo Stato si basa (le norme costituzionali e civili) pur rimanendo libero di esprimere la propria diversità culturale e religiosa, dall’altra parte la vitalità storica locale dell’emigrato altrove (il permanente valore nazionale delle reti emigratorie) pur risultando le successive generazioni ormai cittadine altrove. Il termine “museo” è di solito associato con i concetti di conservazione e di passato, mentre le migrazioni sono fenomeni dinamici e proiettati verso il futuro. I musei delle migrazioni non possono limitarsi a preservare le storie unidirezionali, devono anche ascoltare e stimolare nuove narrazioni e discussioni multidirezionali, devono diventare “musei dialogici”, senza stereotipi. Sarebbe utile interloquire meglio con e fra la rete che fu creata anni fa con il supporto dell’Unesco e dell’OIM: sembra che abbia funzionato poco e male per unire le istituzioni culturali attive sui temi del migrare.