Una delle domande più affascinanti riguardanti la storia profonda della nostra specie è quella legata alle forme di espressione immateriale che i nostri antenati svilupparono nel corso dei millenni. Come mostrano le evidenze archeologiche, il mondo preistorico era tutt’altro che privo di arte e cultura: pitture rupestri, sculture, riti religiosi complessi sono tutti ampiamente documentati dall’archeologia. Vi è anche un’altra forma d’arte – secondo alcuni, la più potente – che animava le società umane del Paleolitico: la musica.
La complessa e, per molti tratti, ancora oscura relazione tra la musica e il percorso evolutivo della nostra specie è stata il tema di un simposio organizzato dall’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti dal titolo “Music: Origin, the Brain, and Evolution”, tenutosi lo scorso 10 novembre a Palazzo Pisani, sede del Conservatorio “Benedetto Marcello” di Venezia. Il convegno ha chiamato a raccolta alcuni degli studiosi più in vista nell’ambito delle ricerche sull’evoluzione umana, per discuterne dal punto di vista biologico e culturale.
Molte umanità
Tra i caratteri più innovativi di Homo sapiens si può annoverare l’emergere di tratti culturali complessi come innovazioni tecnologiche, rituali di trattamento dei defunti, manifestazioni artistiche e, ovviamente, lo sviluppo del linguaggio. A sottolineare queste caratteristiche è Christopher Stringer, direttore del Centro per la ricerca sull’evoluzione umana del Museo di storia naturale di Londra. Stringer è un’autorità nel campo della paleoantropologia: è stato uno tra i primi studiosi, negli anni ’70 del Novecento, a mettere in discussione la ricostruzione secondo la quale i Neanderthal fossero diretti antenati dei Sapiens. In seguito a una minuziosa analisi comparativa, Stringer e i suoi colleghi avanzarono l’ipotesi che non solo Homo sapiens e Homo neanderthalensis fossero specie ‘sorelle’ e, per così dire, parallele, ma anche che avessero convissuto a lungo in Europa. Con l’avvento delle più moderne tecniche di paleogenomica, queste ipotesi vennero poi confermate, e ad esse si aggiunsero nuove, sorprendenti informazioni. I lavori del gruppo di ricerca guidato da Svante Pääbo – tra cui il sequenziamento completo del genoma di Neanderthal nel 2010 – che sono valsi a quest’ultimo il premio Nobel per la fisiologia nel 2022, hanno dimostrato che sapiens e Neanderthal, ormai riconosciute come due specie separate, due rami distinti del cespuglio evolutivo del genere Homo, nel corso del tempo si sono anche ibridati, prospettiva che aggiunge un ulteriore strato di complessità alla ricostruzione di quel lontano passato.
Nel corso del suo intervento a Palazzo Pisani, Stringer ripercorre le scoperte che, negli ultimi due decenni, hanno trasformato le conoscenze sulla storia profonda della nostra specie. Sempre il gruppo di Pääbo ha scoperto un’altra specie di Homo (chiamato Homo di Denisova) contemporanea a sapiens e Neanderthal. Nel 2003 era stato scoperto Homo floresiensis, una specie umana di piccole dimensioni che abitò l’Indonesia fino a 50.000 anni fa, e nel 2019 è stata riconosciuta come specie a sé Homo luzonensis, un’altra forma umana arcaica vissuta nelle Filippine. Tutto questo dimostra che, per la maggior parte della nostra storia evolutiva, non siamo stati soli, ma abbiamo calcato le scene del mondo convivendo con specie molto simili a noi sia dal punto di vista fisico e genetico, sia, probabilmente, sul piano culturale.
Cultura: una prerogativa di sapiens?
Uno dei dibattiti ancora aperti, infatti, riguarda proprio l’individuazione del momento in cui emersero sistemi di comportamento complessi e manifestazioni culturali, e la possibilità di dimostrare che vi sia un nesso tra caratteristiche tipicamente umane, come la comunicazione simbolica, e l’evoluzione di una morfologia “anatomicamente moderna”. Un’altra questione aperta è se le altre specie umane che abitarono per millenni accanto a sapiens avessero sviluppato forme culturali simili (la risposta sembra essere positiva) e dove si possa tracciare un confine tra umano e non umano, almeno nel senso più moderno del termine.
Nei decenni passati era molto diffusa, tra gli esperti di evoluzione umana, l’ipotesi secondo cui tra 50 e 40.000 anni fa si sarebbe verificata una sorta di “rivoluzione umana”, un’“esplosione creativa” che, dall’Africa, si sarebbe poi diffusa grazie alle varie ondate di migrazione di sapiens fuori dal continente. Questo paradigma, tuttavia, è stato sconfessato dalle ricerche e dalle scoperte archeologiche più recenti. Come sottolinea Stringer, vi sono tracce di attività manuali di antenati della nostra specie ben più antiche di questa presunta rivoluzione: esistono evidenze di manufatti lignei risalenti addirittura a 476mila anni fa, seppur non se ne conosca la funzione. Secondo Francesco d’Errico, anch’egli ricercatore di primo piano nel mondo dell’archeologia, le più antiche tracce di cultura materiale oggi note potrebbero non indicare in modo preciso il momento d’inizio di comportamenti complessi come la produzione di ornamenti o di strumenti musicali. Al contrario, è molto più probabile che simili pratiche siano molto più antiche e si siano evolute, seguendo traiettorie diverse e con notevoli differenze regionali, molto prima, addirittura già 300.000 anni fa.
Un altro dato degno di nota riguarda le evidenti capacità simboliche della nostra specie sorella più nota, i Neanderthal. Come dimostrano scoperte di grande valore, quali le strutture della grotta di Bruniquel, sembra che anche i Neanderthal avessero sviluppato forme di comunicazione complesse, probabilmente indipendenti da esigenze di sussistenza. Quel che appare più difficile è individuare un chiaro punto di demarcazione tra ciò che può essere considerato ‘umanamente moderno’ e ciò che invece ricade al di fuori di questa categoria, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti culturali.
Come ha messo a fuoco nella sua relazione Giorgio Manzi, docente di paleoantropologia all’università La Sapienza di Roma, vi sono evidenti differenze anatomiche che distinguono Neanderthal e sapiens. Tali differenze sono particolarmente evidenti nello sviluppo cerebrale e, secondo il professore, vanno ricondotte a una fondamentale differenza tra le due specie nel processo di sviluppo ontogenetico. La domanda a cui manca ancora una risposta definitiva è se la differenza nella rapidità di crescita tra queste due specie (i sapiens mostrano una crescita cerebrale molto più marcata e più lenta, mentre in Neanderthal questa è più breve e “compressa” nei primi tempi dopo la nascita) abbia avuto conseguenze nello sviluppo di tecnologie, comunicazione ed espressioni culturali. Eppure, come ha sottolineato un altro relatore del simposio, l’archeologo Nicholas Conard, le evidenze archeologiche dimostrano non solo che i Neanderthal producevano abitualmente oggetti ornamentali, ma anche che la produzione di cultura materiale successiva a 40.000 anni fa è sì primariamente, ma non esclusivamente attribuibile agli umani anatomicamente moderni. In un articolo pubblicato nel 2007, Conard stesso chiariva quest’ambiguità affermando: «L’estinzione dei Neanderthal non implica necessariamente che non fossero culturalmente moderni, così come l’estinzione locale di gruppi di sapiens non mostra che non fossero culturalmente moderni. La più importante caratteristica di Homo è che il nostro sviluppo culturale può variare, e varia, indipendentemente dall’evoluzione delle caratteristiche morfologiche».
Musica ed evoluzione
La musica sembra, a tal proposito, un indicatore al tempo stesso promettente e sfuggente. È probabile, infatti, che le prime forme di espressione musicale siano state estemporanee e non abbiano richiesto l’uso di supporti materiali creati appositamente. La produzione di suoni tramite la percussione di oggetti di uso quotidiano, il battito delle mani, il canto potrebbero essere stati le forme più arcaiche di musica. Queste manifestazioni avevano probabilmente una forte funzione sociale: ancora oggi, infatti, la musica è un importante aggregatore sociale; inoltre, in tutte le espressioni spirituali e religiose la musica è una componente importante del rito.
Quel che è certo è che solo i sapiens hanno lasciato dietro sé tracce materiali di strumenti che sembrano creati per la produzione di suoni simili a quel che oggi chiamiamo musica. Nicholas Conard, nella sua relazione, ha mostrato immagini di diversi flauti ritrovati in alcune grotte nel sud della Germania: tra questi vi è il più antico finora conosciuto, risalente ad almeno 35.000 anni fa. Secondo l’archeologo, la discreta diffusione di questi oggetti nei siti archeologici del periodo, nonché la loro posizione, suggeriscono che si trattasse di oggetti di uso comune, e che dunque la musica fosse parte della vita quotidiana degli esseri umani già almeno 35.000 anni fa.
Questo quadro sembra suggerire che la musica possa aver avuto non soltanto un qualche ruolo sociale, ma forse addirittura evolutivo. È quel che propone Emiliano Bruner, paleoneurobiologo: dal momento che, come sappiamo, la produzione e la fruizione della musica inducono modificazioni cerebrali in chi fa questo tipo di esperienze, non è impossibile pensare che simili modificazioni possano aver avuto un ruolo evolutivo nel nostro lontano passato. Secondo la teoria della cognizione estesa, infatti, la mente non è un prodotto, ma un processo, il cui svolgimento è frutto di una continua interazione tra cervello, corpo e ambiente. Nel caso degli umani, dell’ambiente fanno parte anche le tecnologie e gli oggetti che caratterizzano la nostra vita quotidiana: la continua interazione con essi potrebbe aver modificato il modo in cui agiamo, sentiamo e pensiamo. Vediamo in atto, nell’antichità, un processo che ancora oggi caratterizza il nostro mondo: noi umani modifichiamo l’ambiente, e l’ambiente così antropizzato a sua volta modifica noi.